Dossier H. P. Lovecraft / 7 - Necronomicon

Tre sguardi nell'abisso lovecraftiano, tra orrori (invisibili) e cattive (ri)letture

Egli sa dove Essi hanno calcato i campi della Terra

e dove ancora li calcheranno,

e perché nessuno può contemplarLi

mentre camminano.

Necronomicon

Dell’impossibilità del cinema di penetrare fino in fondo gli oscuri, blasfemi anfratti dell’universo lovecraftiano, si è già detto molto e molto si potrebbe ancora dire.

D’altronde, c’è qualcosa, nelle pagine di Howard Phillips Lovecraft, che si è sempre negato allo sguardo cinematografico, qualcosa di unico e fortemente personale che ha sempre rifuggito una vera, fedele trasposizione della sua opera, come se quel mondo assurdo, dalle geometrie sbagliate e dagli spazi non euclidei, non fosse adatto a essere convertito in immagini, e le visioni di Nyarlathotep, il caos strisciante, o di Shub-Niggurath, il Nero Capro dai Mille Cuccioli, fossero davvero troppo per essere racchiuse, descritte e imprigionate all’interno di una semplice inquadratura.

Eppure – nel viaggio tra gli orrori inconcepibili (e, quindi, invisibili) dell’universo lovecrafriano al cinema – non poteva certo mancare l’omaggio che il grande schermo ha dedicato al testo fittizio più celebre della storia della letteratura, quintessenza dell’immaginario del solitario di Providence e catalizzatore di tutta la sua distorta mitologia. Una storia tormentata, quella del Necronomicon, dentro e fuori lo schermo, una leggenda ambigua e costantemente in bilico tra la finzione letteraria e il vero e proprio culto, un espediente capace di sfuggire persino al controllo del proprio autore.

Redatto, secondo la tradizione, dall’arabo pazzo Abdul Alhazred attorna all’VIII secolo, tramandato dai più oscuri culti della terra e giunto fino a noi in rari e proibitissimi esemplari, il Necronomicon – sorta di teogonia dei Grandi Antichi e, insieme, formulario per evocarli – conquista ben presto un posto di riguardo nel cuore degli appassionati, fino a trascendere il suo ruolo letterario, in un cortocircuito tra realtà e finzione estremamente prolifico.

Bisognerà però attendere l’estro citazionista di Sam Raimi perché questo feticcio dell’immaginario acquisisca un ruolo finalmente significativo (benché apocrifo) anche al cinema.

Ma se, ne La Casa, è un fantomatico Necronomicon Ex-Mortis a farsi ammiccante pretesto per l’orrore a venire, è solo dopo qualche anno che il folle tomo riacquista la sua dimensione originaria mettendosi al centro di un film antologico esplicitamente – questa volta, sì – legato all’autore de L’orrore di Dunwich.

Sin dal titolo, Necronomicon (anche conosciuto come Necronomicon: Book of Dead), opera corale diretta da Christophe Gans, Brian Yuzna (entrambi anche alla sceneggiatura, assieme a Brent Friedman e Kazunori Itô) e Shusuke Kaneko, ribadisce la centralità dello pseudobiblium nel corpus letterario dello scrittore e, insieme, ritenta l’incosciente trasposizione dell’universo di cui è messaggero sul grande schermo, condensando, in tre episodi, tutti i pregi e i difetti del cinema lovecraftiano.

Immagine rimossa.

Affidando allo stesso Lovecraft (un irriconoscibile Jeffrey Combs, già reduce dal successo del lovecraftiano e imprescindibile Re-Animator) il ruolo di collante e intermezzo metatestuale della vicenda, si alternano sullo schermo – quasi evocate attraverso la rischiosa lettura del nefasto volume da parte dell’intrepido autore – le più riconoscibili ed esplicite ossessioni dello scrittore del New England, liberamente ispirate e facilmente assimilabili a una manciata di suoi racconti.

E se niente di nuovo sembra arrivare dalla storia di perdita e dannazione di The Drowned di Christophe Gans, intriso com’è di suggestioni e rimandi edulcorati all’intricata mitologia dello scrittore, tra echi de I topi nel muro (la casata dei De LaPoer e un degenerato culto tramandato da generazioni, i principali punti di contatto con il racconto) e vaghe suggestioni da Il richiamo di Chtulhu (con tanto di finale e tentacolare cammeo dell’enorme sacerdote dei Grandi Antichi); qualcosa sembra invece muoversi con The Cold di Shusuke Kaneko (un più esplicito rimando a Aria fredda, con però qualche significativa variante, a partire dal sesso del protagonista) che, attraverso i suoi orrori pseudo scientifici, in un ammorbante e mefitica riproposizione del mito dello scienziato in lotta con la morte, riesce a regalare qualche colpo di scena e almeno un paio di guizzi inventivi (il lento corrompersi e disintegrarsi del dottor Madden pare uscito direttamente dal racconto di HPL).

Ma è con Whispers, firmato, non a caso, da Brian Yuzna (tra le altre cose, già produttore di Re-Animator) che Necronomicon tenta realmente un significativo approccio alla materia, tracciando una direzione possibile per questo tipo di cinema. Attraverso la sua tipica messinscena ora sfacciatamente splatter ora fortemente onirica e straniante, Yuzna ha il pregio di saper catturare lo spirito di Lovecraft, riuscendo – al di là di qualsiasi banale intento filologico – a renderne concreto l’orrore tentacolare, l’atmosfera da incubo, il disarmante senso di solitudine, affacciandosi sull’abisso della follia e fotografando il momento in cui tutto si spezza. Usando come (vago) spunto il celebre Colui che sussurrava nelle tenebre, Yuzna riesce a evocare, attraverso la discesa nella follia di una giovane agente di polizia sulle tracce di un misterioso serial killer, soprattutto l’ambiguità dell’orrore tipica dell’autore, quella consistenza tanto flebile quanto avvolgente, così forte nelle pagine di quel racconto paranoico sull’incubo di una possibile invasione aliena. E se nei primi due episodi era il flashback a dominare l’intreccio in una sorta di struttura a scatole cinesi, in Whispers è il tempo stesso a venire meno, in un incubo sgradevole e perturbante che confonde i piani di realtà e nega certezze e punti di riferimento.

Più che i singoli episodi – tutto sommato pregevoli anche quando meno coraggiosi e più tradizionali – è allora la scarsa uniformità dell’operazione d’insieme a fare di Necronomicon un film imperfetto, zoppicante e a tratti grossolano. Un’insicurezza di fondo incarnata appieno negli intermezzi che si frappongono tra i vari capitoli, inserti fallimentari nella loro stentata forzatura, nel loro ingenuo intento di farsi summa di un mondo fantastico ancora tanto, troppo distante e inarrivabile.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 26/03/2017

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