Dernière Séance (The Last Screening)

Dernière Séance (titolo internazionale: The Last Screening) è il quarto lungometraggio del francese Laurent Achard, arrivato a cinque anni di distanza dall’ultimo Le dernier des fous (noto come Demented), che aveva riscosso un buon successo di critica. Dernière séance, così come il film che l’ha preceduto, trova il suo punto di forza nell’allucinata interpretazione dell’attore Pascal Cervo, qui nel ruolo di Sylvain, proiezionista/tuttofare presso una piccola sala della provincia francese in cui ogni giorno è in programma sempre lo stesso film: French Cancan di Jean Renoir (1954), uno dei tanti tributi cinefili di questa pellicola il cui intento è illustrare un parallelismo tra il voyeurismo del cinephile e la patologia del killer, risultando sterile e formalista. Il film, presentato anche al Festival di Locarno e in Italia al Torino Film Festival, pone il narrato al servizio del visivo, dando luogo a una serie di immagini giustapposte legate da un filo troppo debole e nel quale manca qualsivoglia tipo di emozione: Dernière Sèance infatti, è pervaso non soltanto dal gelo più assoluto ma da una sensazione di vuoto pressoché totale, il che è in netto contrasto con le ossessioni e passioni patologiche di cui narra.

Si scomodano pretesti edipici, nell’immobilità severa della fotografia di una madre bellissima che campeggia nell’appartamento dell’uomo, nei sotterranei del cinema in cui vive all’insaputa del proprietario (Nicolas Pignon); madre con ambizioni da attrice, che costringeva il piccolo Sylvain a recitare con lei nelle prove per le audizioni, annullando così quel confine tra realtà e finzione che lo renderà un uomo labile e alienato. Donna che sta alla radice del suo odio verso il Femminile e alla conseguente deviazione omicida/fetiscista, alimentando quell’impulso che lo spinge a uccidere vittime casuali per poi tenere un loro orecchio con orecchino come trofeo, da apporre sulle fotografie delle dive del cinema con cui ha tappezzato la parete, le stesse immagini che campeggiavano sulle mura della sua casa d’infanzia.

Un manifesto di Play Time di Jacques Tati utilizzato come porta scorrevole marca in modo simbolico il confine tra il suo mondo, le quattro mura dove vive clandestinamente, e la vita reale, ciò che sta al di fuori della sua mente debole e contorta. Sylvain vive rifiutando la realtà e gli eventi che lo circondano: la sala sta per chiudere, venduta a una società che la trasformerà in negozio, ma egli ignora tutto ciò, va avanti come se nulla fosse, smentisce le voci sul cessare dell’attività, porta avanti il suo microcosmo immutabile fino alle estreme conseguenze. Solo l’incontro con la giovane Manon (Charlotte van Kemmel), che si mostra attratta da lui, lo riporterà solo per un breve arco di tempo nell’ambito di una normalità di cui Sylvain non può più far parte.

Come già accennato, il film è colmo di citazioni e omaggi, ma i rimandi più forti ed evidenti sono rappresentati da Psyco e L’occhio che uccide, il primo nel persistere dell’ombra di una madre terribile, il secondo nel gusto voyeuristico dell’omicidio, l’occhio cinefilo che diventa morboso sguardo del killer. Due ossessioni che si fondono, e che hanno origine in un’infanzia traumatica, in una figura materna ingombrante, in una visione della donna distorta e spaventevole. Tutti argomenti non soltanto visti e stravisti sugli schermi, ma che Achard tratta in maniera del tutto superficiale, prendendoli a pretesto per le sue inquadrature dal sapore art house, fini a loro stesse, in una sorta di slasher autoriale che non ha il coraggio di prendere una posizione netta. In conclusione, un film irrisolto ed eccessivamente teorico e cerebrale, dagli spunti interessanti che risultano per perdersi in un plot che gira a vuoto su se stesso, come una bobina senza pellicola.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 09/02/2015

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