Dark Night

Tim Sutton parte dal massacro nel cinema di Aurora per realizzare un film che riflette sui limiti della rappresentazione.

Ri-elaborando e mediando esperienze traumatiche, storiche, personali e collettive, il cinema ha riflettuto sui limiti formali, epistemologici, e anche etici, della rappresentazione. Come quelli che riguardano l’atto di ricreare e mettere in scena l’irrappresentabile, cosa possa significare il processo di drammatizzazione nell’esperienza fenomenologica dello spettatore, o come questo possa suggerire nuove considerazioni sulle dinamiche che intercorrono tra ricostruzione e realtà dell’evento. Sono questi alcuni degli assunti principali di Dark Night di Tim Sutton, presentato nel 2016 al Sundance Film Festival e successivamente nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia. Il film è liberamente ispirato al massacro di Aurora, consumatosi tra il 19 e il 20 Luglio 2012, notte in cui James Holmes, ex studente di neuroscienze, sparò sulla folla in una sala cinematografica durante la proiezione del film Il cavaliere oscuro - Il ritorno, uccidendo 12 persone e ferendone 58.

Lontano dal voler offrire una risposta o dal comprendere le motivazioni che hanno spinto James a compiere quel gesto, il film decide di non mostrarci il fatto di sangue nel suo svolgersi, concentrandosi invece sulla quotidianità in cui vivono i personaggi coinvolti poche ore prima dell’accaduto. Il processo di drammatizzazione del massacro richiama esplicitamente, sia a livello visivo che formale, l’approccio utilizzato da Gus van Sant in Elephant per affrontare la strage di Columbine. Se da una parte la cecità dell’opinione pubblica e delle istituzioni è spesso quella di non riuscire a vedere l’”elefante” nel salotto, sottolineando il clima di indifferenza riguardo i problemi sociali a monte degli eventi, così come riguarda alcune dogmatiche posizioni sulle politiche di controllo della vendita di armi e le misure di prevenzione, dall’altra neanche il cinema stesso può farsi portatore di verità assolute e di giudizi incontrovertibili. La metafora dell’elefante in questo caso ritorna facendo riferimento ad un racconto buddhista secondo cui una serie di uomini ciechi, toccando e tastando parti differenti dell’animale, associano la zanna, l’orecchio, la coda ad elementi singoli come un ramo, un masso, un serpente, non riuscendo, dunque, ad identificare la figura nella sua interezza, nella sua completezza. La dislocazione e la deterritorializzazione vengono trasmessi attraverso un processo di decostruzione della struttura narrativa, un racconto caleidoscopico che non coincide con alcun punto di vista, tanto del killer quanto delle vittime, e che procede in maniera non lineare ma con ellissi, vuoti, assenze, ritorni, tempi morti. La macchina da presa si distacca dal vissuto, dalla storia personale dei personaggi, ognuno dei quali porta un tratto o un elemento dell’omicida, per osservare nelle lunghe carrellate e nelle riprese aeree l’assenza, la solitudine di un paesaggio (dell’animo) desolato, anonimo, ampio e claustrofobico allo stesso momento. Il regista è guidato da uno spirito di osservazione e uno sguardo antropologico sulla provincia americana che si sofferma su momenti non significativi all’interno delle dinamiche narrative, su spazi contemplativi, vuoti e alieni, rifiutando di dare sentenze definitive, ma lasciando spazio allo spettatore per riflettere sulla morte, sulla violenza e su una realtà sconnessa. La natura virtuale dell’ambiente viene accentuata dalle immagini di Google Maps in cui il cursore si muove nelle strade e nei parcheggi deserti e statici, in quadri fissi in cui nulla si muove, in cui nulla accade, come i personaggi che si aggirano come fantasmi nello spazio urbano.

Il rifiuto della realtà e la ricerca di rifugio, la fuga verso una dimensione virtuale, distorta, sono il principio del processo di dissociazione e alienazione che guida verso la folle violenza e l’autodistruzione. A causa del buio e dell’incompletezza del quadro totale si potrebbe pensare che i primi responsabili siano i videogiochi o il cinema stesso, dal momento che James ha voluto tingersi i capelli per somigliare al Joker prima di sparare sulla folla. L’omicida è voluto entrare quindi nella finzione cinematografica, interpretando un personaggio, per cercare celebrità attraverso i mass media e per entrare nell’immaginario collettivo come il villain di Batman. Tuttavia, l’interezza dell’animale rimane oltre la nostra comprensione, concreta e figurativa. Dark Night decide di rifiutare il sensazionalismo, la spettacolarizzazione della violenza attuata dai mass media, per concentrarsi sulla marginalizzazione sociale, sull’alienazione, affrontando una tematica sempre più tragicamente attuale e sui cui è necessario riflettere. …e ora parliamo di Kevin era l’imperativo di un altro film che affronta le sparatorie scolastiche. Un America ferita e tradita a cui è stata portata via la luce del sole, ed ora la notte non sembra essere mai stata così buia.

Autore: Samuel Antichi
Pubblicato il 16/03/2018

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