Cortesie per gli ospiti

Dal romanzo omonimo di Ian McEwan, un tassello importante della filmografia di Schrader che riconferma alcune delle sue ossessioni predilette

Tratto dal romanzo omonimo di Ian McEwan e sceneggiato da Harold Pinter, Cortesie per gli ospiti non è (forse) tra i film più apprezzati e lodati del regista statunitense Paul Schrader ma è, tuttavia, un’opera che innegabilmente esibisce e approfondisce con acutezza tutta una serie di nodi tematici tipicamente schraderiani, e lo fa con un linguaggio visivo estremamente raffinato e levigato. Il connubio eros/thanatos o eros/violenza serpeggia, come è evidente, in molto cinema di Schrader: quasi che la sessualità, lungi dall’essere libera e liberatrice autoaffermazione del sé, dovesse per forza di cose coincidere – all’opposto - con uno smarrimento del sé, con una discesa in un altrove pericoloso, la salvezza dal quale può estrinsecarsi unicamente, di conseguenza, in un sofferto processo di redenzione. Molto è stato detto e scritto, a questo proposito, sul binomio violenza/catarsi e sulla matrice religiosa del senso di colpa che tormenta molti personaggi schraderiani, senza tralasciare i relativi riferimenti biografici al percorso formativo e educativo del regista stesso.

Tuttavia, non è possibile pretendere di condensare in poche righe un discorso che per la sua complessità e le sue numerose implicazioni meriterebbe ben altro spazio. Peraltro, il fulcro della riflessione che viene dispiegata con perizia e sottigliezza in Cortesie per gli ospiti è sì inscritta nel marco-tema eros/thanatos, ma – assieme, anzitutto, ad Auto Focus e The Canyons – pone in primo piano, più precisamente, un altro dei leit-motiv prediletti dell’autore americano: il legame intrinseco tra pulsione scopica e pulsione erotica, dove l’atto umano del guardare viene amplificato a dismisura dal potenziale offerto dal medium tecnologico (cinematografico oppure, in questo caso, fotografico). Diversamente da quanto accadeva nei due film sopracitati, l’oggetto del desiderio inesaudibile è stavolta, inequivocabilmente, un corpo maschile: quello di Colin (Rupert Everett), in vacanza in una misteriosa e labirintica Venezia con la sua compagna Mary (Natasha Richardson). Attorno a lui lo stravagante e fascinoso Robert (uno straordinario Christopher Walken) tesse lentamente una tela viscosa e mortifera, come un ragno paziente e bramoso attorno alla preda inerme. E’, ancora, su di lui che convergono, intrecciandosi, gli sguardi perennemente erotizzati dei protagonisti – quello limpido di Mary, quello ambiguo di Robert e quello ammirato della moglie di lui, Caroline – ed è su di lui che insiste l’occhio della macchina da presa, sovrapponendosi a quello (o meglio a quelli) dello spettatore. Ma l’azione scopica-desiderante e determinante, carica di diabolica perversione, sarà infine quella della coppia Robert/Caroline. E la pulsione di Robert, fatta di erotismo latente sublimato in un’aggressività repressa ma pronta ad esplodere rovinosamente, che passa anzitutto attraverso lo sguardo e l’immagine. Schrader lo dichiara fin dal principio, con una serie di fermi-immagine in bianco e nero che si riveleranno poi essere le fotografie scattate a Colin da Robert, prima ancora che quest’ultimo entri in scena. E dunque l’assassino, ancora fuori campo, agisce in un primo tempo solo attraverso lo sguardo, proteso e anelante, ossessivo e paranoide; sarà infine proprio l’esistenza delle fotografie prima a suggerire e poi a palesare all’incredula Mary la terribile follia degli (apparentemente) affabili, cortesi e ospitali Robert e Caroline.

E’, infatti, proprio con le fotografie scattate all’ignaro Colin che i due coniugi hanno tappezzato un’intera stanza del loro sontuoso appartamento, e per l’appunto quella riservata ai loro incontri amorosi. Perché queste immagini, più di ogni altra cosa, sono il feticcio che risveglia in loro l’attrazione reciproca, un’attrazione che si esplica in una sessualità malata che è già passata, a questo punto, dal sadomasochismo alla tendenza omicida (in Robert) e suicida (in Caroline). Il loro è, a ben guardare, un feticismo dell’immagine, come lo era anche quello dei protagonisti di Auto Focus e The Canyons. Ma è un desiderio, questo, condannato ad essere frustrato e inappagabile: perché – parafrasando la celebre affermazione di Susan Sontag 1 - l’immagine altro non è che simulacro, presenza ingannevole o meglio testimonianza di un’assenza. E’ un qualcosa che afferma e ribadisce, con la sua sola esistenza, la lontananza inestinguibile tra l’occhio di chi guarda e l’oggetto del desiderio.

1 Una fotografia è insieme una pseudo-presenza e l’indicazione di un’assenza, Susan Sontag

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 26/10/2017

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