Chelsea on the Rocks

Ferrara dedica al Chelsea Hotel di New York un documentario molto personale, pieno di tenebre e indecisioni, ma mortalmente affascinante

Pretty baby, won’t you

Wake up, it’s a Chelsea morning

Joni Mitchell, Chelsea Morning

Il cinema di Abel Ferrara è da un po’ di tempo a questa parte alle prese con un ripiegamento su se stesso da non leggere necessariamente come un’involuzione, a dispetto della pigra meccanicità con la quale sono stati accolti i suoi ultimi lavori: c’è infatti una limpidezza quasi disarmante, alle soglie della studiata ingenuità, nel modo in cui il focoso regista statunitense sembra misurarsi col perpetrarsi attraverso il tempo dei propri indistruttibili fantasmi, di ossessioni sedimentate ma non per questo svilite dalla ripetizione. Quello di Ferrara è, dopotutto, un cinema che non ha paura di ribussare alla propria stessa porta, di confrontarsi tanto col degrado di storie e ambienti quanto con la degradazione della sua stessa architettura portante: film come 4: 44: Last Day on Earth e Welcome to New York, giusto per citare gli ultimi due lungometraggi di Ferrara, che in tal senso sono anche i più paradigmatici, si presentano allo spettatore in forma di brandelli: luoghi sciatti e patologica cupio dissolvi, vale a dire brama di dissoluzione, sia essa malinconia da fine del mondo o voracità all’insegna dell’eterno connubio sesso-denaro.

Ferrara è però sempre vigile nel prendere per mano i suoi medesimi autismi e nel condurli in porto con più classe di quel che si è in larga parte disposti a tributargli. Ed è così che di fronte al documentario Chelsea on the Rocks, risalente al 2008 e arrivato da noi direttamente in dvd nel catalogo home video della Bim, si ha una reazione analoga a quella consolidata affezione per lo sfacelo che si respira negli altri film del Ferrara più recente. Si assiste infatti anche in questo caso a un dilettantismo fluido, a un abbandono cosciente, a una regressione portata avanti con cognizione di causa. Tanto da poter ricostruire idealmente una specie di trilogia, fondata su tre opere girate prevalentemente in interni e accomunate da molto più che un paio di minimi comun denominatori.

Nel rinchiudere il proprio sguardo all’interno del celeberrimo Chelsea Hotel di New York, epocale crocevia di artisti e bohémien, Ferrara anziché implodere, come pure sarebbe più prevedibile, preferisce esplodere in un’estemporaneità priva di setacci, in una narrazione debole che consente allo spettatore una dose non indifferente di autocoscienza nel ricomporre i dettagli – gli atteggiamenti contano molto più dei particolari aneddotici – suggeriti dagli intervistati (tra cui spiccano per peso specifico Ethan Hawke, Miloš Forman, Dennis Hopper). E’ la paradossale ricchezza di un cineasta che dopo aver conosciuto la saturazione non ha paura della pagina bianca, dello spazio rimasto indenne da condizionamenti e arzigogoli troppo marcati. Ferrara si ritrova a giocare con i filtri, tra incursioni nel collettivo e agenda strettamente privata, tra installazione video-artistica e cronaca di un mondo culturale e urbano (il suo: quello dell’underground newyorkese) del quale egli non può che sentirsi un erede designato. La trasgressione d’altri tempi, quella warholiana della decomposizione di una ripresa cinematografica lasciata in balìa della sua stessa autonomia e di una durata non censurata, è per Ferrara una necessità ancora tutta contemporanea (Sid Vicious e Nancy Spungen sono addirittura evocati in sequenze di fiction, anche se non ce n’è bisogno, in un universo così palesemente fantasmatico). Ecco allora che prende forma e sembra farsi direttamente sotto i nostri occhi un documentario roco e fumoso che non chiarisce i riferimenti, non usa didascalie, se ne infischia bellamente ma come esercizio di libertà rivendicata, non certo come atto di stucchevole menefreghismo. Ferrara, da sempre illuminista del torbido e delle sue implicazioni, pare tenerci ancora moltissimo a ribadire l’inutilità di moltissime parafrasi che s’inerpicano a vuoto e senza un baricentro. Ecco perché quest’ultimo elemento il suo documentario lo evita scientemente: il suo magma indistinto sul Chelsea Hotel, che più che documentare è interessato a stimolare, accumula senza freni e inanella testimonianze prive di unitarietà, il più delle volte lasciate andare a ruota libera, senza un’idea generale armoniosa o un legame interno specifico. L’ammasso così raccolto è pertanto furioso ma anche irrisolto, come una matassa da sciogliere dinanzi alla quale l’insegna dell’hotel invecchia e trascolora sempre più l’intervento e l’apporto in prima persona di chi guarda diventa imprescindibile.

Ferrara, come suo solito, non risparmia nubi, motivi iconici cercati e voluti con accanimento (l’11/9 ritorna come una ferita a cielo aperto con la quale è impossibile, fisicamente, fare i conti), insegue più anime e sfumature, bukowskianamente non si accontenta, né della vita dissipata né delle sue incarognite sporcizie. Da Bob Dylan a Dylan Thomas, quando ci sono di mezzo a loro volta personaggi come Allen Ginsberg e Lou Reed, per non parlare di Janis Joplin e Leonard Cohen (il Chelsea Hotel fu la cornice di molte delle loro gesta, anche erotiche), il passo può essere brevissimo, soprattutto in un iper-testo tanto compiaciutamente sfilacciato. E a proposito di pluralità di anime (e di vocazioni corrispondenti), come non ripensare, riguardo all’incontenibile generosità e conflittualità artistica di Ferrara, proprio a un motto dello stesso grande poeta gallese: I hold a beast, an angel and a madman in me. Una sintesi forse composita, ma perfetta e illuminante nella compresenza non rasserenata e ossimorica dentro cui ci spinge, incapaci di qualsiasi pacificazione.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 25/08/2014

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