Cenerentola

La Cenerentola live action di Kenneth Branagh si rifà direttamente al film d'animazione del 1950, ma ha il fiato corto dell'opera su commissione.

Dopo Maleficent con Angelina Jolie e mentre è in arrivo un adattamento live action de La bella e la bestia diretta da Bill Condon e con protagonista Emma Watson, la Cenerentola firmata Kenneth Branagh si inserisce nel panorama dei film fiabeschi contemporanei senza aggiungere nulla di nuovo a uno dei territori narratologici in assoluto più classici e più consolidati, assecondandone pedissequamente le esigenze narrative ed estetiche. Fin qui nulla di male. Anzi. Perché si sa che i racconti archetipici, che appartengono al patrimonio di esperienze condivise da tutti noi, non possono venir meno a determinati obblighi, ad alcune morali definite, a certe traiettorie che conosciamo a memoria, a partire dal disegno dei personaggi e dagli snodi della trama, e che pure il più delle volte non mancano puntualmente di avvincerci e di legare il loro sguardo al nostro. Con un’eco che spesso e volentieri transita dal pubblico più scontato, quello dei più piccoli, per sedurre anche gli adulti con dinamiche che in fondo li riguardano più da vicino di quanto loro stessi siano disposti ad ammettere. Un aspetto che il più insolito Maleficent, pur con tutti i suoi inciampi e le sue pigrizie in computer graphic, aveva sottolineato a dovere, così come aveva fatto il comunque discutibile Alice in Wonderland burtoniano, capostipite, cinque anni fa, della ritrovata passione hollywoodiana per le fiabe classiche, visto il suo incasso faraonico.

Ciò che tuttavia è allo stesso tempo rassicurante e fastidioso, nell’ultima versione cinematografica di Cenerentola, non è certo la fedeltà totale alla traccia di partenza, la fiaba di Charles Perrault, ma l’impersonalità stilistica elevata a sommi livelli di invisibilità da parte del regista britannico Kenneth Branagh, che sparisce letteralmente dietro la sua messa in scena sognante e candida e agisce in tutto e per tutto come un artigiano al soldo degli studios. Rispettoso dei canoni disneyani con un servilismo così zelante che più che confortare e far sentire a casa, come ci si aspetterebbe da una storia che si conosce a menadito, un po’ irrita e tiene a distanza. Di fatto Branagh si rivolge in modo letterale al film d’animazione della Disney del 1950 e il suo non è niente più e niente di meno di un cartoon con attori in carne e ossa: un ibrido semplificato che di sicuro piacerà ai piccolissimi, già a loro agio con modelli di riferimento bidimensionali, ma che sembra una straniante estensione su larghissima scala del cartone animato originale. Un baraccone, in altre parole, in cui al clamore ammiccante non corrisponde uno scarto in avanti rispetto alle sue origini, a ciò da cui si proviene e nel cui solco ci si inscrive senza rischiare nulla, senza azzardare un’inquadratura, senza affidarsi a una psicologia che non sia una copia carbone ricalcata fino all’ottusità dal prototipo favolistico. Il tutto tra mimetismo, con un occhio al blockbuster coi supereroi, ed epica farlocca, tra magia d’ordinanza e ironia fiacca, ad anni luce di distanza dai moti scespiriani cari al regista, evocati di sfuggita nelle alte sfere di qualche colloquio tra famiglie e regnanti.

Limiti che non sorprendono né piovono completamente dal cielo, comunque. Perché si sa che in operazioni come questa l’urgenza primaria è quella di rientrare nella confezione, cosa che Branagh provvede a fare leziosamente, conscio del proprio obiettivo industriale. Una meta strettamente commerciale che è venerata portando il concept disneyano a vertici formalmente sfavillanti per cura del dettaglio e del comparto tecnico, che può contare sulle scenografie di Dante Ferretti, i costumi di Sandy Powell, le musiche di Patrick Doyle. Peccato però che l’amalgama delle singole eccellenze non dia vita a un affresco complessivo memorabile, dato che ogni maestranza resta scollata l’una dall’altra e il film di Branagh non ha, palesemente, la grande consapevolezza artistica dell’opera totale, in cui tutti gli elementi rimano tra di loro e si amplificano a vicenda. Una carenza che smaschera, magari non impietosamente ma con discreta intransigenza, il deficit insito nel lavoro su commissione, che nella prima parte, più annacquata, non manca di smarrirsi in derive da telenovela zuccherosa un po’ ingessata. Salvo poi ritrovare dignitosamente, dalla magniloquente sequenza del ballo in poi, il ritmo e il passo che fino a quel momento erano sembrati più intermittenti e che nondimeno, nonostante qualche improvvisa e isolata accensione, vengono sepolti ben presto sotto il didascalismo stucchevole, il coraggio e la gentilezza ribaditi con un’ostinatezza quasi autistica, il bozzettismo degli effetti visivi. Rimane il rimpianto per ciò che avrebbe potuto combinare il talentuoso Mark Romanek, cassato dalla Disney non a caso perché troppo orientato verso una rilettura dark (anche l’Alice di Burton, dopotutto, dovette livellarsi allo standard del convento disneyano), e per la matrigna di Cate Blanchett, una perfetta Lady Tremaine che avrebbe meritato maggior fortuna.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 13/03/2015

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