Cake

Cinema indie su commissione personale, Jennifer Aniston nel ruolo di una vita che sfida il dolore del lutto e il nostro pietismo.

Un personaggio delineato con precisione chirurgica, che insiste nel farsi trasportare lungo il suo percorso in un mondo che si rifiuta di guardare. Come in un ‘viaggio attraverso il tunnel’ di un male incolmabile e cronico, una donna cerca di trovare la sua strada tra perdite incalcolabili, fantasmatiche presenze e un tragico passato che la distrugge giorno dopo giorno. Cake è amaro fin dall’incipit, parlandoci di un lutto al quale sarebbe bastata una leggera spinta per riuscire a distinguersi dall’aggroviglio di produzioni indie-americane, ma che invece non riesce a capitalizzare il suo forte spunto iniziale.

Nell’anno cinematografico 2014 in cui grandi attori maturati produttori hanno preso le redini di piccoli film che ruotavano attorno alle loro one-perfomance-show (le prove di Jake Gyllenhaal ne Lo sciacallo – Nightcrawler o di Reese Witherspoon in Wild), Jennifer Aniston coglie l’occasione cinematografica di una vita per liberarsi dai canoni sexy della ninfomane dei due Come ammazzare il capo.. e presentarsi con tutti gli stilemi di un’inattesa prova d’attrice: volto struccato, percorsa da profonde cicatrici, una figura femminile caratterialmente sgradevole e ben lontana dai ruoli ‘fortunati’ che le hanno affibbiato commedie sboccate e remunerative al box office.

Con un titolo indipendente girato interamente a Los Angeles dal 45enne regista Daniel Barnz, di cui si è fatto un gran ‘rumore’ per la sua mancata nomination agli Oscar 2015. Dentro un plot che si srotola liberamente - a dispetto della pochezza dei personaggi secondari - l’ex Rachel di Friends abbraccia un dramma intinto di zuccheroso sentimentalismo, dove il dolore permea ogni incavo e l’intento è quello di strappare un consenso critico tale da aprire la porta a commozione e gloria. Dimostrando al pubblico l’avvenire della sua maturazione artistica dinanzi ad un soggetto ‘imbruttito’ che ad Hollywood, si sa, fa sempre tanto clamore.

Sottoprodotto di un ’generis’ che negli anni è diventato un modello a sé (con risultati altalenanti, spesso tarati su ingredienti lavorati a un grado di ’cottura’ in cui è facile far emergere rabbia e frustrazione), Cake segue la sua protagonista con spirito analitico e in ogni sua azione quotidiana, studiandone i movimenti e rilevando un declino psicologico che nello spettatore cerca il desiderio di un possibile lieto o comunque speranzoso fine.

Indurita nello spirito, quanto fragile e sofferente nel corpo, la Claire della Aniston è una donna messa di fronte alle difficoltà della vita che le rimane, piena di manie divertenti e fedele ad un tono disincantato con il quale le asseconda. Ossessionata dal suicidio di Nina (un’eterea Anna Kendrick gettata alle ortiche), l’indomabile bisbetica si costringerà a rivedere le proprie scelte grazie ad una serie di personaggi di contorno che la porteranno a patti con il proprio trauma, e chissà, forse, verso un futuro diverso seppur doloroso. Qui, nella pretesa di considerarsi a tutti i costi un’opera complessa, il film di Barnz predilige una retorica sottesa per meglio godere di un viaggio esistenziale tenuto a distanza dal cinismo e con il quale è facile empatizzare, irrazionalmente. D’altronde lo script di Patrick Tobin era stato nel 2013 inserito nella ’blacklist’ delle migliori sceneggiature ancora non prodotte; un copione che sia economicamente sia a livello di marketing non aspettava altro che una star hollywoodiana per ottenere il già comprovato successo del genere che affronta. Trascinato nei suoi 100 minuti da continue incursioni di scarsa efficacia (fra l’onirico e il mistico), nonché slealmente rappresentate con sfumature ora pietose ora più dolenti ma sempre in grado di colpire e raggiungere il loro scopo, Cake galleggia in un mare di penuria contenutistica che lo accompagna lungo una serie di teatrini falsamente consolatori. Incrociando battute e situazione senza mai un guizzo registico, un preambolo avvincente, dove l’aspetto interessante sta proprio nel suo evitare il più possibile ogni strada diretta (l’elemento misterioso che si fa motore dell’azione), facendo però leva su un potenziale drammatico che finisce col condizionarne troppo il ritmo ed enfatizzarne a dismisura le tonalità.

Rifiuto di amore, dipendenza dai farmaci, fuga nichilistica nel sesso, codardia e compassione non sorprendono dunque come la capacità della protagonista di far presa sullo schermo; e sebbene alcune scene paiano funzionare a più riprese, rimane semmai la sensazione di un escamotage narrativo – costruito ad hoc - su misura dell’ego della Aniston. Perfino l’atto di accusa contro l’estrema facilità con cui in America si prescrivono antidepressivi è un nervo scoperto dalle premesse appena accennate, invece che offrire una molteplicità degli sguardi su dinamiche politiche che definire inflazionate è dire poco.

Al pari della sua ridondanza inaccettabile, Cake agisce così nei limiti del ’surreale’ e si tramuta nella perfetta dramedy degna di un posto d’onore sull’altare televisivo di Showtime. Spettatori di un universo intimo, toccato per mano e levigato dalla fotografia naturalista di Rachel Morrison, non si può far altro allora che riporsi in posizione ’eretta’ e lasciarsi almeno guidare dallo straordinario apporto della sempre intensa Adriana Barraza (candidata dall’Academy per Babel), alla quale si aggiungono i camei di William H. Macy e Felicity Huffman.

Nemmeno loro paiono risollevare le sorti della sistematica sciatteria in cui riversa la pellicola patinata di Barnz: rimasta in sospeso dentro psicologie tristemente mancate e tutto sommato ottimista nei riguardi dell’esser vivi, senza però alcuno sforzo nel motivarlo. Un bieco scalda cuori di anime infelici, per un film attutito ma alla perenne ricerca della sua conclamata ’scena madre’. Che arriva tardi, quando ormai a sovrastare su tutto il resto è la mera banalità.

Autore: Francesco Bruni
Pubblicato il 07/05/2015

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