Brooklyn

Racconto di formazione semplicissimo e delicato, che descrive la nostalgia di chi è lontano dalla propria terra con un disarmante candore narrativo che commuove e conquista

Tanto tempo fa, i nostri nonni e bisnonni emigravano dai loro paesini in cerca di fortuna oltremare. Alcuni, dopo i primi tempi durissimi, trovavano lavoro, mettevano su famiglia e cercavano di mantenere, per la loro identità e quella dei figli, un legame solido con una patria originaria che diveniva una sorta di madre abbandonata, a volte dolorosamente rimpianta, altre rinnegata in nome delle conquiste ottenute sul posto d’adozione. Oggi che con la grande crisi economica ai dibattiti sulla liceità dell’immigrazione clandestina si è accompagnato il fenomeno della partenza di migliaia di giovani europei – e gli italiani ne formano una bella fetta - senza speranza di trovar a casa propria uno straccio di stabilità lavorativa, arriva un piccolo film quasi impalpabile tanto è tenue, a ricordare il dolore della nostalgia e della distanza forzata dal posto dove si è nati.

Brooklyn stupisce per la sua delicata intelaiatura: il film di John Crowley non è altro che un gentile racconto di formazione che segue le vicende della giovane Eilis (Saoirse Ronan), la quale negli anni Cinquanta è costretta ad abbandonare il villaggio irlandese dove è cresciuta con la madre e la sorella, spingendosi oltreoceano fino a Brooklyn, dove inizia a fare la commessa in un grande magazzino. Gli inizi dentro la caotica metropoli americana sono per la ragazza difficilissimi senza un volto amico, col proprio aspetto semplice e popolano messo sempre alla berlina, e l’obbligo di mostrare a lavoro un sorriso gioviale ai clienti anche quando le lacrime opprimono gli occhi; ma col tempo Eilis inizia a vivere il luogo dove è arrivata, si innamora, si fidanza, sembra aver ricostruito la propria identità. Finché una notizia drammatica da casa la costringe a tornare brevemente e a decidere dove vivere e quindi, chi essere.

Non a caso il film porta il nome di un luogo. I posti dove abitiamo, quelli che lasciamo e quelli che occupiamo riecheggiano della nostra esistenza e sono plasmati da noi come noi siamo plasmati da loro: ogni spostamento spaziale rappresenta una ricostruzione mentale di ciò che sapevamo del mondo e di noi stessi, soprattutto in relazione alle persone con cui abbiamo interagito mentre abitavamo quei luoghi. Il particolare percorso di crescita di Eilis è in realtà un fenomeno universale che circoscrive quel momento in cui la famiglia, che ancora coincide fisicamente con la propria casa, da tessuto principale dell’identità diviene la trama nascosta che ci accompagna quando da soli ci spostiamo in un altro luogo che diverrà un’altra casa e un’altra famiglia. Il dolore feroce provato dalla protagonista al momento del distacco si trasformerà, alla luce della sua emancipazione, in rimorso per il desiderio spontaneo di lasciare agli angoli cioè che prima era centrale, rimorso non facilitato dalla consapevolezza di uccidere metaforicamente la propria madre nel momento in cui le rifiuta quel centro che fin da bambina le aveva istintivamente accordato.

Ciò che da queste righe può apparire come un dramma psicoanalitico all’insegna dell’uccidi i tuoi genitori per realizzare te stesso è però nel film reso con uno stile classico, sobrio, che nulla cede alla spettacolarizzazione. Forse è allora proprio la sua totale indifferenza ad ogni apparenza roboante, la sua cura nell’assomigliare a uno di quei vecchi film di una volta che può capitare di vedere per caso di notte in tv, la sua capacità di raccontare sentimenti minimi senza pretendere analisi minuziose né potenti catarsi emotive a farne un piccolo, prezioso outsider cinematografico, di cui non va persa la visione.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 07/02/2016

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