Boyhood

di Richard Linklater

Quando un’operazione geniale non coincide con la sua realizzazione: opera sullo scorrere del tempo che omette la vita stessa e il suo dolore.

Il miraggio segreto di ogni regista è da sempre quello di sconfiggere il tempo, di riuscire a catturarlo nel perpetuo negarsi e disvelarsi della vita stessa. Rendere il proprio cinema un flusso ininterrotto di gesti, movimenti, pensieri e parole. Riportare in vita il sogno impossibile dello scultore tarkovskiano, quello dei milioni di metri di pellicola con cui seguire ininterrottamente, dalla nascita alla morte, la vita di un uomo, per poi ridurla a un film di due ore.

E’ la follia ardita, incosciente e ambiziosissima, di superare lo scarto mimetico, di vivere il cinema come si trascorre la propria singolare, irripetibile esistenza.

La traccia di un tempo che fluisce, sovrapponendosi alla propria vita, appare come la fata morgana per eccellenza, lo spettro ingombrante proiettato sulla superficie bianca dell’intera storia del cinema.

Viene in mente Antoine Doinel, che vediamo crescere e cambiare nel corso di più film: eroe composto di carne e pellicola, corpo irrequieto abitato dalla grana e dal rumore dell’immagine, esistenza divenuta esperienza collettiva e condivisa. Non si tratta semplicemente di fare della vita un film, come nel recente La vita di Adèle, ma di aprire l’opera all’indifferente fluire del tempo e allo scorrere dispettoso degli eventi.

Veniamo dunque a Boyhood e alla fascinosa operazione messa in piedi da Richard Linklater. Opera-fiume girata nell’arco di dodici anni, priva di una trama all’infuori della crescita stessa del protagonista. Boyhood parte infatti dal 2002, quando Mason ha appena otto anni e frequenta la scuola elementare, per arrivare al 2013, anno d’ingresso al college. Linklater ha girato per pochi giorni ogni anno, seguendo la crescita del suo Doinel e delle persone che lo circondano: amori e dissapori, lezioni scolastiche, viaggi e abbracci materni, sono queste le “storie” che pullulano nel film.

Sulla carta il progetto pareva tanto ambizioso quanto rilevante, perché permetteva di rendere manifesto il tempo stesso impresso sui volti dei protagonisti. Ma l’impressione che si ha, al cospetto della totalità del film, è quella di un’opera che non corrisponde affatto alla sua operazione. Certamente assistiamo alla crescita naturale di Mason, eppure i frutti del tempo vengono colti esclusivamente in una dimensione ottico-fisiologica. Risulta sorprendente che il problema più grave di Boyhood sia l’omissione di tre cose fondamentali: la vita, il tempo e il dolore, elementi non proprio insignificanti per un’operazione di questo tipo.

Ma cosa vuol dire che manca la vita? Significa che nei suoi centosessanta minuti di durata Boyhood dà l’impressione di un film scritto. All’interno dell’improvvisazione, inevitabile per un progetto di questo tipo, Linklater struttura la narrazione alla ricerca di snodi narrativi che possano legittimare il tutto. Se è un pregio del film quello di vivere nell’assenza di climax o di scene madri, ciò che rimane fuori campo è anche l’inazione, i momenti morti, i passaggi vani, perfino la noia, tutte quelle cose che, da sole, compongono la maggior parte della nostra vita e che Boyhood finisce colpevolmente per eludere.

Che un cinema del genere rifiuti di aprirsi al caso, alla sorpresa e all’inatteso, ma proponga una messa in scena costruita fino al midollo, statica, perfino bella, è un peccato non poco trascurabile, perché denota una precisa idea di cinema. La composizione dell’immagine uccide l’azione, la regia fa fuori il sentimento, e dalla vita viene tralasciato tutto ciò che è inutile (ovvero la vita stessa). Quest’omissione sacrifica il film all’altare della letteratura, all’opera-testo composta da una serie di sequenze che seguono una linea ben precisa. Eccetto poche inquadrature davvero vivide (come quella in cui il piccolo Mason osserva un uccello morto o quella in cui padre e figlio urinano per spegnere il fuoco), in ogni immagine di Boyhood avviene qualcosa che avrà esiti nelle sequenze successive. Il montaggio è governato da un regime di causalità e mai di casualità: questo vuol dire che non c’è alcun senso di vuoto o mancanza, nessuno spettro che si aggira perturbante nel corso dell’opera. Tutto è pensato sempre come un percorso in cui il punto A porta necessariamente al punto B. Il rischio è quello di ridurre ogni momento a mera funzione, a stratagemma narrativo volto a un fine ultimo, a una sintesi che possa dire e concludere il percorso.

Di conseguenza appare come un controsenso il fatto che un’opera del genere finisca: nella sua chiusura il film non cerca di cristallizzare l’attimo, ma di legittimarsi in una serie di doppi finali in cui papà Ethan Hawke e mamma Patricia Arquette cercano di dare un senso a tutto ciò che abbiamo visto. Come se la vita fosse un progetto di cui è possibile tirare le somme. Là dove tutto dovrebbe continuare, Boyhood va alla ricerca di una sintesi e, nel farlo, si chiude in se stesso, contro ogni ipotesi di passaggio, di varco esperienziale, di erranza priva di meta. All’immagine in cammino che concludeva La Vita di Adèle, alla corsa de i 400 Colpi, Linklater contrappone il piano di due ragazzi seduti che osservano l’orizzonte. E’ proprio questo il punto: si ha come l’impressione che il regista senta il bisogno di controllare, orchestrare, gestire la materia trattata, reificandola e oggettivandola dall’alto.

La vita di Mason finisce per divenire oggetto di sguardo e non più soggetto in grado di guardarci, dialogare con noi e perfino di scoprirci. Si immagina quasi che la materia trattata provi a combattere l’autore, ma fallisca miseramente: vorrebbe ribollire e squarciare la cornice, fuoriuscire dallo sguardo castrante del suo scultore, ma non ce la fa, non ci riesce; rimane bloccata, frustrata, impossibilitata a muoversi da sola. Tutto in lei è dolorosamente potenziale, perché vorrebbe urlare ma la sua voce è truccata da un Linklater nelle vesti inattese di ventriloquo. Mason stesso non vive la sua vita, non sente, non grida, non piange, non soffre mai veramente, assiste solo attonito e passivo al mondo che lo circonda.

Dovrebbe essere proprio a lui a condurre il film, a gestire il gioco, ma non avviene nulla di tutto questo. Mason è la diretta emanazione di un pensiero che parla sull’immagine, di una struttura troppo conchiusa in se stessa per lasciarlo libero. Ciò che risulta edulcorato è allora il vero senso del dolore, la sua proiezione su grande schermo. E’ questa mancanza di empatia a trasformare un’operazione interessante in un racconto che intrattiene ma non infiamma.

Oltre a Mason tutti quanti i personaggi proseguono come in una linea retta, privi di sbandamenti e sfaccettature più complesse: sembrano semplici pedine in balia di un autore. Padre, madre, sorella: tutti insieme, privi di slittamento, di rabbia, euforia o umanità. Per non parlare dei personaggi più scritti del film: i due nuovi mariti di Patricia Arquette, ubriaconi privi di riscatto, talmente prevedibili e stereotipati, talmente narrativi nel loro apparire/scomparire dalla scena, da risultare indigeribili.

La seconda cosa che manca al film, dicevamo, è il tempo. Certo, i dodici anni scorrono inevitabilmente davanti ai nostri occhi, ma ciò che è completamente elusa è la struttura stessa dell’immagine-tempo. Non esiste una scultura interna dell’inquadratura, un’idea precisa di durata coerente con l’operazione prefissata.

Le immagini si susseguono ma non godono mai di un’alterazione, di un dipanamento, di un tempo interno che possa dissolverle. Non c’è tensione, scarto o collisione tra un’inquadratura e l’altra, ma un tiepido, banalissimo accostamento cronologico: si va avanti, come se fossimo all’interno di un postulato composto di più parole, accostate una all’altra per ottenere un senso specifico. Tutto questo riporta sempre alla schiavitù di quel logos imperante che respinge l’irrazionalità, l’inutilità, ma soprattutto la dimensione gratuita delle nostre azioni al mondo. Dov’è la gratuità in Boyhood, dov’è la violenza, dov’è il microcosmo patico intelaiato dal flusso delle nostre emozioni? Rimane invece un passaggio modulato, controllatissimo, orchestrato da un aprioristico demiurgo che tutto verifica e tutto stabilisce. Dimenticate i cristalli di durata, ma lasciatevi andare al nesso funzionale della struttura narrativa, pare rimanere (solo) questo.

Ebbene, in un film dove il maggior punto d’interesse è la sua stessa idea, si può almeno restare affascinati dal fatto che Linklater regista cresca all’interno di Boyhood, sviluppando progressivamente un progetto di cinema che va modellandosi nel corso degli anni (e, di conseguenza, nelle diverse tappe del film). Poco importa delle gioie e delle tristezze ardenti, delle distese che svelano il nulla di cui siamo fatti, dei furori e delle letizie che soggiacciono allo sguardo non di chi guarda, ma di chi pensa e di chi gira ancora prima di vivere. Lontano anni luce dalla dolce malinconia che ci mantiene roventi, Boyhood appare come una delle occasioni mancate più memorabili degli ultimi anni.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 25/10/2014

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