Black Mirror - Stagione 3

Ora su Netflix, la serie cult di Brooker prosegue con coerenza il suo racconto tecnologico, ponendo al centro, ancora una volta, il rapporto anzitutto visivo tra i suoi spettatori e il mondo digitale.

Nonostante il mercato seriale occidentale, similmente a quello cinematografico, sia dominato da produzioni americane, la televisione inglese ha saputo ritagliarsi negli anni un’identità non meno definita, caratterizzata da un’alta qualità media e dall’attenzione a temi e modalità narrativo-stilistiche di stringente attualità.

Dalla rivoluzione teen di Skins alla riscrittura superoistica di Misfits, dall’epopea fanta-umanista di Doctor Who alla rilettura contemporanea di Sherlock, il parco seriale inglese nasce dalla gloriosa tradizione del suo servizio pubblico televisivo e continua a crescere capitalizzando tale storia in una costante spinta innovativa, diramata su canali e piattaforme di natura diversa di cui Netflix è solo l’esempio più eclatante. Del resto per Black Mirror, nata Channel Four su mandato Endemol, l’approdo al grande servizio di streaming sembrava un destino annunciato, perfettamente coerente non solo con l’invadenza tecnologica di cui si fa portavoce ma anche con quella veste 3.0 che da subito ne ha contraddistinto la comunicazione.

Uno degli aspetti più interessanti della serie creata da Charlie Brooker è infatti la capacità di costruire la sua fortuna d’immagine giocando con quegli stessi strumenti multimediali e social che i suoi episodi autoconclusivi mettono così ferocemente alla berlina.

Black Mirror è infatti una serie molto consapevole delle proprie attrattive, capace di investire sulla sua natura virale con un approccio tecnologico che passa dentro e fuori dallo schermo senza soluzione di continuità. Il prodotto in sé, specie dall’interno di Netflix, diventa così una mise en abyme delle proprie intenzioni rappresentative, uno specchio nero appunto, lucido e vuoto come tutte le superfici digitali che ci osservano giorno dopo giorno da cellulari e dispositivi portatili. Da qui nasce un gioco a carte scoperte con lo spettatore, che impone la serie come tendenza ma favorisce anche la sopravvalutazione e la ricezione messianica di uno show capace come pochi di rendersi protagonista attivo (nel doppio ruolo di soggetto narrativo e oggetto di dibattito) all’interno del discorso digitale. Quest’approccio mal nasconde una furbizia estrema, che è lecito accettare quanto respingere, tuttavia è innegabile come tale strategia mediatica sia perfettamente coerente con la natura intima di una serie che nulla ha di fantascientifico e tutto da dire sul presente, su quella realtà i cui infiniti aspetti vengono amplificati dai singoli episodi secondo un approccio volto a creare una versione ipertrofizzata ma assolutamente vicina della nostra vita digitale.

Sotto la sua patina futuristica e il suo appeal comunicativo, Black Mirror è infatti l’unico prodotto audiovisivo a parlare oggi con tale programmaticità e coerenza del mondo digitale e delle sue idiosincrasie, problematicità evidenti e sempre più pervasive nella vita di tutti i giorni ma che, a parte eccezioni di peso (le più evidenti: The Social Network, Blackhat), il cinema contemporaneo non riesce o non vuole porre al centro dei suoi mondi narrativi. E’ sempre più evidente infatti lo scarto anacronistico che contraddistingue tanto cinema americano e non, in difficoltà nel ritrarre l’invadenza anzitutto visuale che gli schermi digitali esercitano nel nostro quotidiano (e a riguardo ci sarebbe tra intraprendere un’analisi la cui mole non potremmo in questa sede contenere). Ed è per questo che, nonostante la consapevolezza di cui si è detto e una retorica semplicistica che a volte limita il modo in cui affronta alcuni dei suoi argomenti, Black Mirror resta un prodotto unico nella sua contemporaneità, e sul cui campo tematico segna uno scarto imbarazzante nei confronti di molti prodotti coevi.

Questi i motivi per cui la terza stagione della creatura di Brooker ha attirato da subito tanta attenzione su di sé – senza sottovalutare il banco di prova rappresentato da una nuova stagione con il doppio degli episodi rispetto al passato che viene messa in onda sul principale servizio di streaming a livello globale.

Volendo tirare un attimo le somme dei suoi sei episodi, questa terza stagione ha regalato, come è ovvio, alti e bassi, ma ha avuto l’indiscutibile merito di focalizzare e rilanciare con coerenza estrema la natura intima dello show. Nomen omen, Black Mirror è una serie sull’atto di guardare e su come le nuove tecnologie interferiscano con questo processo conoscitivo offuscando il rapporto tra soggetto e oggetto, inquinando e alterando non solo la percezione che abbiamo della realtà ma anche di noi stessi. Black Mirror è quindi uno specchio perché ci pone sempre di fronte una visione esasperata di noi stessi, ma opacizza tale relazione rappresentativa attraverso le maglie del genere, della distopia vagamente futuristica, dal cui interno crea un doppio livello di lettura atto a catturare lo spettatore stesso nel suo atto di guardare. Il vero specchio ideato da Brooker allora non guarda al mondo esterno ma al più piccolo panorama riflesso dal monitor/tv/smartphone da cui stiamo in quel momento guardando lo show. Come ci diceva già il finale di The Entire History of You della seconda stagione – apice teorico della serie in cui la prospettiva voyeuristica dei personaggi si identifica e camuffa in quella di noi spettatori – ciò che cattura questa scatola di specchi siamo noi stessi nel nostro atto compulsivo e pervasivo di visionare il mondo e gli altri attraverso – ça va sans dire – la tecnologia.

Si pensi a Shut Up ad Dance, una gigantesca “trollata” messa in scena dentro e fuori la finzione e indirizzata tanto ai personaggi quanto ai loro spettatori; o meglio ancora alla ruffiana nostalgia di San Junipero, che ricostruire pedissequamente il fascino vintage degli anni ’80 inglobando però all’interno della sua cornice (il paradiso artificiale) quello stesso bisogno di riconoscimento nostalgico che l’episodio stesso suscita su di noi spettatori durante la visione, e sul quale fa leva per ritagliarsi uno spazio d’elezione nel nostro sguardo. I protagonisti qui si rivelano essere nella stessa condizione di noi che ne siamo il pubblico, le nostre fascinazioni vengono riflesse nelle loro e assorbite dal tessuto stesso dell’immagine. E ancora Men Against Fire, l’episodio forse meno riuscito del pacchetto per come rende tale processo di riconoscimento così palese da farsi didascalico, ma che riesce comunque a farsi disturbante nel modo in cui pone le dinamiche scopiche al centro di processi di controllo e manipolazione tecnologica.

L’apoteosi di quest’approccio è infine l’ultimo Hated in the Nation capolavoro di Brooker e forse miglior episodio di sempre per come riesce a limitare la retorica che altrove appesantisce la rappresentazione (primo e secondo episodio su tutti) grazie al rispetto fedele e umile di pure dinamiche di genere. Qui sta il meglio di Black Mirror, quando la serie evita ogni pontificazione e demonizzazione facile per darsi a costruzioni in cui ogni suggestione teorica resti interna alla narrazione, pronta a porsi in evidenza solo per innestare il cortocircuito di sguardi che sottintende e anima tutta l’operazione.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 13/11/2016

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