Bifest 2017, Pupi Avati e la sua masterclass

Tra sogni e ricordi, il regista bolognese emoziona il pubblico del Bifest con la sua personale storia del cinema.

Immersa nelle nebbie di un dormiveglia che prelude alla morte, Laura ricorda l’incanto della giovinezza, ritrovandolo nelle immagini persistenti di un’indimenticabile gita scolastica, vissuta alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale. Come lo spirito (l’incanto, appunto) di cui parla il suo professore di lettere aiutava i viaggiatori a superare i monti dell’Appennino tra Bologna e Firenze, l’abbandono alla rêverie permette alla donna, ormai anziana, di tornare nuovamente ragazza e di riassaporare la felicità dei tempi andati. Quel “buon tempo antico” di leopardiana memoria, spazio-tempo ideale in cui è concentrato tutto il piacere della rimembranza. Forse nessun film – tra i tanti realizzati dal ’70 ad oggi – avrebbe potuto precedere con maggiore efficacia la nostalgia romantica della masterclass di Pupi Avati rispetto a Una gita scolastica.

Stimolato dalla domanda introduttiva di Enrico Magrelli, il regista bolognese ospite dell’ottava edizione del Bifest si è subito impadronito del palco del Petruzzelli, manifestando l’intenzione di parlare di felicità. Una condizione che, nella sua eccezione, non può essere disgiunta dal sogno e dalla speranza. Del resto, ha detto rivolto al pubblico, «è nella spudoratezza del sogno che si riesce a sopravvivere alle ingiustizie, ai dolori della vita». Per questo non ha mai smesso di preparare il suo discorso di ringraziamento per l’Oscar, anche se non gli è ancora servito e la sua vita si avvicina, nel frattempo, «ai titoli di coda»; «sarà strabiliante – ha osato, scherzando – e prima o poi lo ascolteranno tutti».

In piedi dinanzi ad una platea gremita, Avati ha regalato agli astanti divertentissimi e preziosissimi aneddoti sulla sua vita professionale e personale, partendo dall’inizio, dall’entusiasmo giovanile per il jazz e per le donne nella Bologna degli anni Cinquanta, e dall’incontro-scontro con l’inesauribile genio di Lucio Dalla, causa scatenante di una crisi che lo porta in breve ad abbandonare le ambizioni musicali e, dopo un periodo di lavoro come rappresentante di una grande azienda di surgelati, ad approdare al cinema. In cerca, forse, di un riscatto che riuscisse a colmare il vuoto lasciato dalle aspirazioni infrante e di una nuova forma d’espressione.

Anni di sperimentazione e di grande produzione artistica, fatti di incontri con vecchi e nuovi protagonisti della cinematografia italiana, dal colloquio di lavoro con un Vittorio De Sica ormai già ammalato alla scoperta casuale del talento di Mariangela Melato durante le riprese di Thomas e gli indemoniati; dall’azzardo, altrettanto fortuito, della scelta di Katia Ricciarelli per La seconda notte di nozze alla marcatura a uomo di Fellini, intimorito dall’insistente presenza di Avati, tra i vicoli del centro di Roma. Un gigante del cinema mondiale ritratto da Avati nel suo lato più fragile, quello che alla fine di una carriera coronata da grandissimi successi e premi non riusciva ancora a permettergli di affrancarsi da un’ossessiva dipendenza dai giudizi altrui.

E poi le turbolenze, affrontate insieme alla moglie (il ricordo del loro incontro, tra opportunità del destino ed astute trovate dell’ultimo momento, è al contempo toccante ed esilarante) e le riflessioni sul cinema italiano contemporaneo, affetto secondo il regista da una crisi quasi insormontabile da cui si potrebbe uscire soltanto ritornando con coraggio ai generi che lo hanno reso grande in passato. Un’occasione, soprattutto personale, per ritrovare se stessi.

«La vita ha una sua circolarità, si arriva a un certo punto in cui diventa importante ricordare, allora prima si prova nostalgia per la giovinezza e poi per l’infanzia. Io sono in quest’ultima fase, in cui ripenso al cinema che ho tanto amato da bambino, il cinema fantastico con il quale ho poi debuttato e che è tornato a sedurmi», ha dichiarato nel finale. «Ho riaperto quindi il cassetto dell’immaginazione e dei racconti che mi facevano i contadini, dominati dalla presenza del Male e dalla paura che suscita. Nel mio prossimo film racconterò la storia di due bare che scomparvero nel nulla dopo l’alluvione del Polesine del 1951, le uniche che non furono mai recuperate». E noi non vediamo l’ora di vederlo.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 27/04/2017

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