Biagio

Biagio di Scimeca è un piccolo-grande film rosselliniano sulla ricerca della fede

È da più di un mese che vivo in questo pagliaio e la mia anima è quieta. Prima avevo tutto e non ero mai contento. Ora non ho niente e sono sereno.

In questo mondo maledettamente cinico e sempre più arido gente come Biagio sembra venuta da un altro pianeta, un marziano forse, per molti solo un pazzo o un ingenuo. Mollare tutto, casa, famiglia, lavoro, per andare a vivere in montagna, lontano da quella società dei consumi che alla fine degli anni Novanta ancora doveva mostrare la sua faccia più vuota e violenta. Alla ricerca di Dio, o più semplicemente di un contatto, di una voce nuova che sappia parlare al cuore e all’anima, restituendole dignità. Una ricerca folle, guardandola con gli occhi della modernità. Chi mai potrebbe prendere una decisione tanto radicale, mettendo a repentaglio la propria vita, oltretutto per un’esigenza strettamente personale? Solo più avanti questo novello frate francescano avrebbe dirottato la sua fame di fede, amore e vita tra i marciapiedi di Palermo, al fianco dei diseredati e dei poveri, ai quali ancora oggi presta assistenza, offrendo un letto su cui dormire, un tetto sotto cui ripararsi, cibo e acqua per sfamare e nutrire. Al pari del suo protagonista, Pasquale Scimeca mette in discussione ogni cosa, compresa la sua carriera, correndo il rischio di sembrare un analfabeta del cinema e dell’immagine. Rossellini, al quale non può che andare il nostro pensiero, teorizzava, come ha ricordato in tempi recenti Lorenzo Esposito su Filmcritica, un depotenziamento del cinema quale presupposto per la sua resurrezione. Scimeca sembra andare in quella direzione. Perché una storia come questa, ispirata da eventi e personaggi reali, non poteva essere filmata seguendo i dettami del cosiddetto cinema classico, o forse, era semplicemente irrealizzabile. Come si fa a dare vita a qualcosa che non ha corpo, che non può che stare oltre l’immagine, fuori campo, da qualche parte tra il cielo e la terra? Qualcosa a cui si vorrebbe credere con tutto se stessi, eppure impossibile da vedere con gli occhi. Bisogna sentire prima che vedere, desiderare prima che toccare. E allora come filmare questo sentimento, questa fame, questo desiderio? Aderendo al corpo del protagonista, facendone la forza centrifuga di ogni immagine. E poi filmandone il pensiero, come nei diari bressoniani. Un’impresa folle insomma, e inevitabilmente fallimentare. Tant’è che Scimeca lo riconosce fin dai titoli di testa, dove sentiamo la voce del suo alter ego - un regista che per tutta la carriera ha sognato di realizzare un film che potesse cambiare la vita delle persone – parlarci di quanto tenesse a questo progetto, purtroppo naufragato a causa delle sue contraddizioni. Ma allora quale film stiamo vedendo? Siamo ancora una volta dopo La mia classe e Belluscone nei territori del meta-cinema, dove si racconta il proprio fallimento, facendone il cuore del discorso? I dubbi vengono fugati poco più avanti, quando dopo aver visto Scimeca in sala di montaggio interrogarsi sul ruolo del regista ("per chi facciamo i film? Per noi o per il pubblico?") inizia, come se niente fosse accaduto, la storia di Biagio. Eppure non si può far finta di niente. Quella confessione iniziale continua a risuonare in ogni sequenza, dalla più potente (l’arrivo di Biagio ad Assisi) alla più debole (l’immigrato che legge Il cantico delle creature nel commissariato). Che senso ha vedere un film che si dichiara fallimentare sin dal prologo? Forse nessuno, ma il piacere, se di piacere si può parlare, risiede altrove, nella ricerca della fede, che è poi anche la ricerca di una lingua nuova che sappia oltrepassare la ragione per giungere fino al cuore degli spettatori. Una lingua che è anche quella del cinema, che deve azzerare le proprie coordinate e perdersi insieme con il suo personaggio per riscoprire se stessa, il suo senso, la sua “funzione”. Senza intenti dogmatici e soprattutto senza un percorso a tesi. Biagio arriva a fondare la sua comunità, ma non riuscirà mai a rispondere a quel desiderio che lo ha guidato per tutta la vita: l’incontro con Dio. Non c’è risposta perché a Scimeca interessa altro, ovvero raccontare il cammino, con tutta la fatica e il dolore che comporta, e dunque il percorso di fede, la scommessa che rilancia un’altra idea di vita e di mondo, un’altra ipotesi di cinema, facendo saltare il banco del destino. Già ci immaginiamo le risate di scherno, le stroncature, le parole vuote di tanta critica che non avrà mai neanche un briciolo del coraggio di questo talentuoso regista siciliano, indipendente fino al midollo. Troppo ingenua la parabola, si dirà. Troppo fragile un film con una sceneggiatura senza turning point significativi, senza picchi drammatici, con attori non professionisti e una grammatica del cinema pericolosamente discontinua e a tratti fragilissima. Forse avranno ragione loro, ma non lo accetteremo mai. Perché il cinema non può ridursi ad un discorso meramente tecnico. E’ come l’amore, e quando ci innamoriamo non ci chiediamo perché o come sia accaduto. Semplicemente lo accettiamo. Allo stesso modo accade con il cinema. Biagio è un film che va sostenuto con forza, perché è autentico, sofferto, onesto e coraggioso come pochi altri. Talmente tanto da mettere in mostra il proprio fallimento come estremo atto di umiltà e di amore per il cinema e per la vita.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 25/10/2014

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