Bad Guy

Tra volti anonimi e fin troppo consueti, l’occhio di Kim Ki- duk si posa sulla grazia indifferente di una ragazza qualunque, capitata casualmente sotto uno sguardo che si perde nell’attimo stesso in cui incrocia il suo. Bad Guy è la storia di una Seul che divide e unisce a suo piacimento, assistendo come un testimone silenzioso al disfarsi di esistenze, invischiate in una dimensione dove non sono contemplati moralismi, dignità e onore. Questa città fatta di suggestioni, sussurri e scatti pittorici evidenzia tutta la sensibilità drammaturgica dell’artista sudcoreano, che innalza il rifiuto sociale e la desolazione individuale a parti incontrovertibili del destino umano. Personaggi marci, lacerati e laceranti, si aggirano confusi, in un equilibrio distorto tra sesso, amore platonico e carnalità, sull’arena dove si gioca l’ultima partita tra eros e thanatos.

Un bacio rubato diventa allora un feticcio di angoscia, mentre simbologie e sentimenti si disseminano lungo la perenne e vana ricerca di armonia che spinge ogni personaggio lungo una strada a senso unico. Un viaggio senza meta, inesistente se non nell’inafferrabilità dell’obiettivo, si traduce nell’aspirazione a essere qualcos’altro e nella caduta inevitabile per l’impasse del rimanere irrimediabilmente se stessi. L’esile sviluppo narrativo funge da espediente per la drammatizzazione universale di un’umanità sconfitta ma ancora viva nonostante quella patina logora che la sporca. Kim Ki-duk parla di persone che cercano di celarsi sotto un velo per coprire il tessuto strappato di un’esistenza di solitudine. Come succedeva nel cavaniano Il portiere di notte, anche qui vittima e carnefice si fondono e si plasmano a vicenda, in una involuzione del personaggio che cambia il proprio sguardo sul mondo, fino a farlo collimare in una realizzazione d’amore surreale: unica dimensione raggiungibile nell’improbabile rifrangenza di un universo dai valori capovolti, dove l’ultima verità è un punto rosso congelato in un fotogramma color seppia. L’unica speranza è proprio quella di vivere nella sua totale assenza, coltivando un amore che non può essere se non in un involucro di pareti e vetrine, dove gli abiti cadono, gli specchi si rompono e i corpi giacciono quasi inermi a osservare i rivoli di strappi che sanguinano.

Più crudo rispetto ai lavori precedenti, questo Bad Guy filtra tutta la violenza che si nasconde dietro ogni silenzio, facendosi ancora più incisiva quanto più dilagante è il senso di perdizione che stringe sui volti e sui gesti fino a una privazione mortale che è prima di tutto verbale. Solo in questa ottica, allora, un incidente può diventare amore per poi farsi rapimento, ossessione e tortura, e terminare in un riscontro onirico che trasforma il romanticismo in un destino che sa di vomito e sangue. Il regista scava in profondità per far emergere sentimenti ed emozioni sporchi di inferno, che si attaccano ai personaggi quasi come sfregi. Cupo e tristemente logico, in un’atmosfera di rassegnazione che non conosce innocenza, il film sa parlare di orrore attraverso la dolcezza irradiata nelle crepe dell’anima. Lo spettatore assiste inerme alla lenta decomposizione interna di questi uomini-manichini, che sanno vestirsi solo di abitudine. Mentre un vortice di brutalità si dispiega lungo tutta la pellicola, il tocco scandito dalla macchina da presa disegna una cornice poetica che trasforma in voyeurs, aderenti alla visione tanto più nella misura in cui aumenta quella sensazione di sgradevolezza. Lo sguardo ormai corrotto resta incollato ad ogni fotogramma, indelebile nella materialità della vita che si finge costruzione scenica. Niente appare più sofisticato della delineazione di un quadro d’agonia, concreta fino all’imbarazzo tanto da marchiare l’immagine che non può conoscere altro se non la rozza brama di un istinto primordiale eletto a essenza vitale. Tutto il resto avvizzisce nella torbida consapevolezza che non esiste possibilità di riscatto fuori dal cerchio mietitore che soffoca il respiro. Perché una volta conosciuta la costrizione, nulla è più letale della libertà. In questa prospettiva, quindi, la realizzazione umana resta possibile solo nell’annullamento del sé.

Sulle note sussurrate di una lontana nenia, si apre una visione che non conosce protagonismi scontati o rivelazioni epifaniche, ma si limita a imprigionare verità relative, colte in una incomunicabilità che stigmatizza. Sta nella fatale e assoluta mancanza di risposte tutta l’essenza che si racchiude nella banalità della vita, dove ognuno è prigioniero di sé.

Autore: Marta Gasparroni
Pubblicato il 10/02/2015

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