Automata

L'imperfetta ma evocativa parabola fantascientifica di Ibañez riscrive, con misurato tocco europeo, un immaginario consolidato.

Lo specchio deformante della fantascienza pare, negli ultimi anni, essersi distorto in punti differenti, aver spostato il suo centro di attenzione su ossessioni, timori, paure nuove, mai chiaramente esplicitate in precedenza. Non è un caso che un film come Her di Spike Jonze abbia riscosso tanti consensi, timido riflesso di paure subcoscienti, emblematico terrore per una solitudine digitale da nuovo millennio. É un’impressione forte che pervade anche narrazioni insospettabili, solo all’apparenza così ottusamente chiuse dentro uno scimmiottamento citazionista fine a sé stesso, nascoste dietro quel pervasivo quanto fuorviante senso di déjà vù che minaccia, costantemente, di far cadere un’opera nel dimenticatoio, nella sterile categoria del già visto. Un rischio cui neppure Autómata pare riuscire a sottrarsi pienamente.

Ha la fascinazione tutt’altro che trascurabile della rievocazione nostalgica l’innesto cinefilo che lo spagnolo Gabe Ibañez, con fare chirurgico, opera su un immaginario tra i più evocativi e stimolanti nella storia del genere. Riprendendo il tema ormai classico della ribellione delle macchine, il regista di Madrid – un film alle spalle (Hierro) e un passato da responsabile degli effetti speciali per autori come Alex de la Iglesia – si cimenta con quel filone che tanto ha dato alla narrazione fantascientifica omaggiandolo ma, allo stesso tempo, reinventandolo, asservendolo a un proprio riconoscibile universo espressivo. Asimov e Dick sono tanto vicini da potersi quasi toccare in questa pellicola che fonde replicanti ribelli e smaniosi di vita ad automi emancipati e pronti a violare i loro stessi limiti di programmazione; tormentati funzionari alla Blade Runner (l’agente assicurativo Vaucan, interpretato da un Antonio Banderas sulla falsariga del Deckard di Harrison Ford) alle implicazioni etiche e morali di I, Robot, passando per distopie cyberpunk di wachoskiana memoria e un’estetica degradata e corrotta alla Blomkamp di District 9. Eppure Ibanez, tra quelle ambientazioni evocative quanto basta per far (ri)esplodere un immaginario consolidato, pare intercettare anche dell’altro, una strisciante inquietudine emotiva strettamente legata al nostro tempo.

Tra echi dickiani, suggestioni bioetiche, deliri evoluzionistici, in Autómata c’è, infondo, quella stessa, ineffabile paura che si nascondeva tra le pieghe romantiche del film di Jonze, un senso esistenziale di abbandono e di perdita tanto sofferto quanto inevitabile, un’incapacità di controllare dinamiche oramai incontrollabili, la consapevolezza terrificante di non sopravvivere alla propria opera, di essere superati, lasciati indietro persino dalla propria creazione.

In un mondo fondato sulla paura, l’alterità diviene il vero spauracchio per un’umanità a rischio estinzione che ha tutto da perdere, terrorizzata di smarrire la propria supremazia, la propria capacità (scellerata) di agire. É allora una minaccia di inazione quel deserto infinito che sta fuori dalla città, terreno (in)contaminato mai più fertile per l’uomo ma culla della vita, forse, per qualcos’altro, terra promessa (il modello base degli automi si chiama esplicitamente Pilgrim) di emancipazione cui l’essere umano è irrimediabilmente escluso. É il bagliore mortifero di quella distesa arida che finisce col dominare tutta la seconda parte della pellicola, concreta emancipazione da un immaginario ormai ingombrante, a divenire luogo di scontro e di incontro, terreno biblico di rivelazione per eccellenza dove le differenze si assottigliano, dove le opposizioni nette, i punti di vista si stemperano e i personaggi si stagliano nelle loro essenze spoglie su uno sfondo rarefatto e immutabile. É in questo passaggio graduale dalla scura ed evocativa città all’abbagliante e minimale scenografia degli ultimi giorni dell’umanità, che si concretizza, in un viaggio di formazione (quasi) fuori tempo massimo, tutta l’imperfetta ma ben calibrata forza di un film come Autómata.

In un progressivo e costante percorso di sottrazione che va ben al di là di una scontata ristrettezza di mezzi, Ibañez mette in scena un confronto antispettacolare tra l’uomo, demiurgo spodestato, e la sua creazione ribelle, una rivoluzione che si fa scarto, un abisso evolutivo che è anche un salto morale.

Alla luce di tutto ciò Autómata è, allora, tutt’altro che un’opera fallimentare. Al di là della sua scarsa originalità tematica, dietro i suoi momenti lirici a tratti ingenui, a tratti sin troppo compiaciuti, intrisi di un esistenzialismo spiccio e poco incisivo, c’è una schiettezza e un’inventività espressiva non da poco, capace di riscrivere dignitosamente un immaginario datato immergendolo nel presente, declinandolo in tutte le nuove, piccole paure e paranoie che lo popolano.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 17/02/2015

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