Atlanta

Nuovo tassello di una cultura pop sempre più impegnata a raccontare una prospettiva black, la serie di Donald Glover è un sorprendente viaggio di sperimentazione televisiva e riflessione politica.

Atlanta recensione prima stagione

È sempre rischioso guardare al fermento di un dato panorama culturale per cercare al suo interno un sistema di traiettorie e relazioni. Il pericolo infatti è quello di cadere nella semplificazione deterministica, nel teorema di causa-effetto che già presente nell’occhio di chi guarda viene quindi proiettato sulla materia di ricerca. Tuttavia, specie in questi giorni di fine mandato, non possiamo non guardare all’era della Presidenza Obama senza notare quel filo che unisce Django Unchained, Lincoln, 12 anni schiavo, The Birth of a Nation, Free State of Jones. E’ chiaro, uno dei temi dell’America e della Hollywood dei nuovi anni ’10 è la schiavitù e conseguente guerra civile, argomenti privi fino ad ora di un canone iconografico così ampio come quello che si sta venendo a creare. Ma Hollywood è un gigante che non si muove certo senza interessi, serve un pubblico nuovo e costante che dimostri ai vati produttori come operazioni del genere siano ora ammesse e desiderate, un pubblico i cui limiti di accettabilità politica e storica diventano de facto i limiti rappresentativi dell’industria stessa, in grado di spingersi solo fino a dove il pubblico di massa è disposto a seguirla. In parole povere il cinema hollywoodiano è un gigante sì ma dal passo lento.

Perché partire addirittura da Obama e da questo nuovo cinema storico per arrivare ad Atlanta, che di politico e storico e razziale sembrerebbe, ad un sguardo superficiale, avere ben poco? Perché è proprio nella scena più pop della cultura americana di oggi, quella musicale di Beyonce o Kayne West, quella seriale di Atlanta, che molti artisti afroamericani si stanno ritagliando con maggior impatto un importante spazio di autorappresentazione, un palco dal quale riflettere sulla propria “blackness” e allo stesso tempo denunciare le recenti recrudescenze razziali. Atlanta, creata scritta prodotta e interpretata dal giovane Donald Glover, è l’esempio perfetto di questa (auspicabile) tendenza: una serie che parte sfruttando il minimo appiglio di una canonica struttura comedy per poi esplodere in episodi di puro situazionismo paradossale, apparentemente improvvisati e sconnessi tra loro ma di fatto abilissimi nel raccogliere al loro interno spunti di riflessione riguardo l’attualità della comunità afroamericana.

Quando si parla di autorappresentazione black non si può che parlare di musica, e se si parla di rap oggi si deve per forza passare per la città di Atlanta, la cui scena vive dalla metà degli anni Novanta una vera esplosione. Lontano dai sound di New York e Los Angeles, Atlanta è diventata in tempi recenti un laboratorio musicale estremamente vivo, a cui Glover si avvicina forte della sua esperienza come Childish Gambino, dj e rapper con tre dischi in studio all’attivo e numerosi mixtape alle spalle. Glover del resto è una delle personalità più interessanti, variegate e lanciate nella scena pop americana: mancato il ruolo come nuovo Spiderman si è consolato con quello giovanile di Lando Calrissian, mentre in curriculum ha una lunga esperienza televisiva tra scrittura e recitazione, SNL e Community.

Tutto questo si traduce in Atlanta in forme inaspettate e libere, elaborazioni comiche spesso al confine col dramma portate avanti senza una scrittura forte che inquadri il tutto. Anche la scena di Atlanta, che innesca il racconto e l’identità dello show, non guadagna mai una sua ricostruzione sociale elaborata, la città e la sua musica vengono frammentate in piccoli quadretti paradossali, sketch televisivi estesi per tutto l’episodio e sviluppati all’interno con una cura e consapevolezza che nulla ha di veramente improvvisato. Atlanta sembra leggera come l’aria, una materia dalla forma volubile e di sostanza inconsistente, quando a ben guardare il suo peso specifico è notevole, e passa tanto per l’innovazione strutturale dello show quanto per il modo indiretto e fuori dai canoni con cui tratta temi fondamentali come la povertà, il ruolo del rap per i ceti disagiati, la brutalità poliziesca e le più generali implicazioni razziali che riguardano i media. Perché la grande sfida per l’autorappresentazione sta nel modo in cui si gestisce il racconto di sé e della propria immagine, in relazione agli strati di stereotipi, scorciatoie e gabbie iconografiche che narrazioni eterodirette hanno calato dall’esterno, immagini e luoghi comuni che poi si ripetono per le strade e confondono i confini tra ciò che si è e ciò che si è diventati. Atlanta, in dieci episodi di crescente sperimentazione televisiva, interagisce con queste immagini, le esalta e disinnesca dall’interno, portando avanti una sua personalissima battaglia di rappresentazione.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 09/01/2017

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