Apple Tree Yard

La miniserie BBC è un ritratto feroce degli istinti nascosti dalle convenzioni sociali, racconto di una generazione dilaniata tra la precarietà e la necessità della perfezione borghese.

Passato abbastanza sotto traccia tra la critica italiana, Apple Tree Yard in realtà è stato campione di ascolto e hot topic per settimane nel Regno Unito e la cosa non sorprende, dato che lo show è così rappresentativo del drama inglese contemporaneo da sfociare quasi nel didascalico.

All’interno di un’impeccabile confezione registica (affidata a Jessica Hobbs, che ha già in curriculum Broadchurch, River e The Slap) e attoriale (con Emily Watson e Ben Chaplin su tutti), forte di una sceneggiatura che mostra un perfetto bilanciamento tra narrazione di genere e approfondimento psicologico, Apple Tree Yard si dimostra anche in grado di ragionare, con impeccabile classe e misura, sulla natura umana: sulle scelte che facciamo e sulle loro motivazioni, ma soprattutto sulla falsa narrativa che viviamo ogni giorno, basata su ideali di perfezione o anche solo di “normalità” molto più precari di quanto ci piaccia pensare.

Tratto da un romanzo bestseller di Louise Doughty e adattato dalla vincitrice BAFTA (per Room at the Top) Amanda Coe, Apple Tree Yard è una storia scritta da donne che non si vergogna di mostrare un punto di vista estremamente sbilanciato a favore dell’occhio femminile; la storia di Yvonne – una genetista londinese di mezza età che apparentemente sembra avere tutto ed essere pienamente soddisfatta, ma che finisce per farsi trascinare in una storia di sesso con Mark, un misterioso sconosciuto – ci viene esposta dal punto di vista della protagonista, una narratrice che si rivela sempre più inattendibile con lo scorrere degli episodi ma allo stesso tempo si fa filtro irrinunciabile per interpretare l’escalation delle vicende.

La scelta della stessa Emily Watson di interpretarla è stata grandemente influenzata dalla peculiare possibilità di lavorare su visione così “altra”, data la spettacolare carenza di prodotti televisivi e cinematografici che scelgano come protagonista una donna di 50 anni, non soltanto sessualizzata in maniera prepotente ma posta anche al centro di una vicenda moralmente ambigua e decisamente oscura, in cui il suo ruolo sociale (madre, moglie, donna di successo) non soltanto è messo in discussione dalla spirale degli eventi ma è soprattutto, quasi da subito, oscurato da un istinto che trasforma una tranquilla borghese in una creatura not-so-civilised, guidata da emozioni che la allontanano dalle regole della società.

Sex with you is like being eaten by a wolf”, dice Yvonne (non faccia a faccia, ma per iscritto) al suo amante, uomo senza identità se non quella che lei stessa gli costruisce intorno, in base a come lui la fa sentire e a come lei piace immaginarlo. Mark diventa così un rapace sessuale, una spia, un eroe d’azione, un cavaliere senza macchia, uno psicopatico, un poveraccio pieno di illusioni, un traditore o un bugiardo, solo e soltanto attraverso lo sguardo della donna, solo e soltanto a seconda del ruolo che nella personale narrativa di Yvonne l’Uomo è chiamato a ricoprire.

Nella storia tutta al femminile di Apple Tree Yard (nome della strada in cui per la prima volta lei e Mark spostano la lancetta della trasgressione dal puro gioco al rischio, seppur calcolato) è estremamente interessante come l’uomo divenga oggetto del desiderio e incarnazione di una fantasia sessuale – né più né meno che se fossimo all’interno di un softcore romantico stile 50 Sfumature di grigio – ricalcando quella stessa visione limitante e oggettivante di cui le donne sono abitualmente vittime in molta della narrativa creata da uomini; la serie, però, coerente con la propria sobrietà di intenti, non pone l’attenzione sul ribaltamento di ruoli sociali o sui problemi di genere legati alla rappresentazione della donna, ma sull’importanza della componente immaginativa nell’amore e nella gestione delle emozioni.

Non è tanto la vita reale di Yvonne, ma l’idea di vita che si era scelta e che immaginava perfetta per sé, a perdere terreno man mano che il plot da drama di coppia familiare prende la forma prima di una spy story, poi di un crime, infine di un procedurale.

Quell’illusione di tranquillità borghese che sembra tanto solida a Yvonne (ma in cui qualunque spettatore della stessa età potrebbe riconoscersi) si rivela un’illusione ben prima che i fatti precipitino verso l’inaspettato, né più né meno di quanto sia illusoria l’idea che Mark sia una spia, o che sia un eroe senza macchia disposto a rischiare qualunque cosa per la donna che ama.

Ugualmente illusoria è la convinzione di Yvonne di trovarsi in un ambiente sicuro, evoluto, “civilizzato”, convinzione annullata non soltanto dalle azioni di Mark ma ancor prima dallo stupro subito dal collega, momento diegeticamente fondamentale che arriva, totalmente inaspettato, alla fine del primo episodio, a ribaltare la narrazione di quella che avevamo già archiviato come una storia romance leggermente erotica.

La violenza sessuale è l’arma con cui la verità dell’istinto ferino colpisce al cuore la costruzione sociale, quella in cui Yvonne è una donna indipendente che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno di mentire, che non si vergogna di ribaltare i ruoli antiquati nell’essere moglie e madre. Alla luce della violenza fisica, che lascia tracce impossibili da nascondere, e di quella psicologica, che la riduce ad essere indifeso, ai minimi termini della propria femminilità, anche Yvonne reagisce in modo ferino chiedendo all’Uomo vendetta, violenza e protezione. Ma anche proteggendo con la stessa ferinità sé stessa e dunque, muovendosi al di fuori di ogni ipocrisia sociale, scegliendo di non denunciare.

Siamo ormai abituati a distopie post apocalittiche che ci mostrano come la nostra civilizzazione sia un oggetto fragile e più che altro simbolico, che si infrange in un attimo di fronte all’istinto di autoconservazione; siamo meno abituati a vedere gli istinti primitivi esplodere nel quotidiano, all’interno di quella società che dovrebbe domarli, incanalarli e che invece si dimostra solo un leggerissimo velo immaginativo pronto a disfarsi nel momento in cui la nostra sicurezza si incrina.

Apple Tree Yard sceglie non a caso un filtro femminile per raccontare una generazione di donne (ma anche di uomini) arrivate a metà della propria vita senza le stesse certezze della generazione precedente ma anche senza gli strumenti di quella successiva, eternamente dilaniata tra la precarietà e la necessità della perfezione borghese.

Autore: Eugenia Fattori
Pubblicato il 27/02/2017

Articoli correlati

Ultimi della categoria