Annabelle

Lo Spin-off di The Conjuring dedicato alla bambola demoniaca Annabelle è un'operazione commerciale e retorica intrisa di buonismo, bigottismo e patetismo.

Cinema Moderno. Gli istanti che precedono l’inizio della proiezione di Annabelle vedono un febbricitante via vai di accreditati, pressbook in una mano, nell’altra la maschera della terrificante bambola protagonista del film. Di tanto in tanto il fotografo dell’evento invita gli astanti a indossarle per poter catturare l’ennesima istantanea con cui infarcire l’album del profilo ufficiale del film. La sala è gremita. Calano le luci e comincia il sermone.

Dalle ceneri di The Conjuring di James Wan esce nelle sale lo spin-off dedicato alla bambola demoniaca Annabelle, prodotto dallo stesso Wan e diretto da John R. Leonetti.

La dimensione orrorifica di Annabelle si tiene in piedi grazie alla messa in scena ormai standardizzata dal cinema horror mainstream degli ultimi venti anni. Soliti movimenti di macchina, soliti controcampi, soliti raccordi, soliti scarti percettivi. Solito lavoro sul suono e sull’immagine.

Annabelle non si può di certo ascrivere a quel cinema di genere che utilizza il genere per scontrarcisi, per minarlo o per spingerlo un passo in avanti.

Il film di Leonetti si dota di un impianto registico ben poco originale. Riesce a farci sobbalzare sì dalla poltrona un paio di volte nel giro di un’ora e quaranta, ma con i soliti escamotage di esplosioni visivo-sonore fulminee. Si parla di trasalimenti, nulla di più.

Decisamente più terrificante è la drammaturgia di Annabelle: un parossistico confluire di insipida convenzione, blocco ispirazionale e stucchevole manicheismo. Forze del bene contro forze del male. Tra le file dei “buoni” i fedeli, gli uomini di chiesa, i cattolici praticanti in toto. Tra quelle dei “cattivi” gli irriducibili satanisti emuli di Charles Manson.

Certo è inevitabile trattare tale contrasto quando si racconta una storia di presenze demoniache – tema che per concezione stessa è legato a filo diretto con la religione –, ma il film cade in fallo non tanto nel mettere in scena tale conflitto manichèo quanto nella banalizzazione delle forze in gioco e degli eventi a loro associati.

Si sa che il metodo più semplice e scontato utilizzato dagli “autori” per livellare i contorni di caratterizzazioni fortemente retoriche e stereotipate è cercare di minare il ruolo bello impacchettato dei soliti vecchi personaggi con chiaroscuri della personalità, ambiguità, contrasti e conflitti interiori; nel caso di Annabelle tale espediente narrativo viene aborrito senza pietà. Se tale scelta può apparire in controtendenza rispetto alla prassi drammaturgica, il risultato è una linearità di caratterizzazione che sfocia nel patetico, una stucchevole parata di ruoli-macchietta: una bambola di porcellana dalla faccia demoniaca, la famiglia (ovviamente bellissima) composta da Mia (Annabelle Wallis),dal marito John (Ward Horton) e dalla neonata Lia, il parroco buono Perez (Tony Amendola), i devoti vicini e la loro figlia satanista, la libraia Evelyn (Alfre Woodard) esperta dell’occulto e ossessionata dal senso di colpa per aver causato la morte della figlia ventenne. Tutti personaggi senza sfumature, burattini di un azione asfittica. Prendete Rosemary’s Baby e banalizzatelo ben bene, aggiungeteci espedienti di infimo conto come porte che sbattono da sole o silhouette dietro le tende, prendete John Cassavetes e fate del suo Guy Woodhouse un marito premuroso, prendete gli anziani vicini e guardateli senza il loro lato oscuro.

In Annabelle tutta la folta truppa dei buoni è unita sotto la bandiera cattolica nella battaglia contro il male Annabelle/Satana. Male che per allontanarsi richiede un sacrificio umano, il quale verrà offerto sotto forma di espiazione e animato dalla più ostentata conservazione del caro vecchio valore della famiglia. Bianca, occidentale, cattolica ed eterosessuale, neanche a dirsi.

Il quadretto finale non lascia che lo smacco per l’ennesima operazione esclusivamente commerciale (e retorica) targata stelle e strisce. Il precetto “One Nation under God” emerge costantemente lungo tutto il film, ma si esprime ai massimi termini nelle inquadrature finali in un impudente mix di buonismo, patetismo e bigottismo .

Fa male ammettere che fin dall’inizio non ci si aspettava molto, e che tali perplessità non sono state in alcun modo fugate.

Autore: Paolo Scire
Pubblicato il 01/10/2014

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