Ananke

L’esordio di Claudio Romano sorprende nel suo essere un’opera furente e delicatissima capace di volgersi alle radici stesse dello sguardo.

"La solitudine è dura, ma necessaria"

Un uomo e una donna, unità primigenia, due originario in cui ricercare l’umanità perduta. Un’umanità, del resto, che non può più vivere, ma solo sopravvivere. Ananke è quella dimensione ucronica che segna il destino scioccante del nostro mondo, condannato a una letale, terribile epidemia: la depressione, malattia mortale che porta inevitabilmente al suicidio. Per salvarsi bisogna rifugiarsi nei boschi, uscire dal mondo, provare a dimenticare progresso e civilizzazione per abbattere i bacilli inquieti di una tecnocratica tristezza: lasciarsi cullare dalla sempiterna noia della solitudine, tornare a guardare in faccia la natura e tentare di ricongiungersi ad essa. Fondersi in un corpo unico, abitato dai nostri desideri più lontani e reconditi. Riscoprire un’identità originaria in una vita invisibile e fuori dai confini. Lontani da facili adagiamenti, lussi tecnologici o disturbi urbani, lui e lei tornano alle basi stesse della vita, introiettati in un grembo naturale che li osserva senza giudizio, senza morale, senza alcuna ipotesi di civiltà.

L’apocalisse appare allora come destino strutturale della civiltà stessa: la nuova vita è un atto di resistenza eremitico e radicale, dove ricostruire un proprio ordine, una propria quotidianità, una propria scevra, liberissima natura. Ananke, accecante esordio di Claudio Romano, è la pellicola del ritorno, del passo indietro, dell’esigenza di fermare il tempo e fondersi con lo spazio, per ritrovare uno sguardo vergine, iniziatico, puro, in una parola sacro.

Gli occhi di chi guarda si scoprono disorientati, attratti dai piccoli bagliori di luce, dal bianco e nero abbacinante delle immagini, perduti in quel controluce che ci ricorda che non vediamo altro che ombre passeggere, piccoli spettri in balìa di un mondo dimentico degli uomini.

Ananke si materializza davanti ai nostri occhi come un flusso ipnagogico di immagini pensanti. Spaesati, ricerchiamo un punto di vista, una base dialettica che possa raccapezzarci, permettendoci di sondare una volta di più i misteri segretissimi delle immagini-pensiero che baluginano al nostro cospetto. Perché il più grande pregio dell’opera prima di Claudio Romano, scritta a quattro mani con Elisabetta L’Innocente, è quello di essere un film alla deriva, sulla deriva, ma anche – paradossalmente – contro la deriva. Un’opera in fuga – non intesa come evasione, ma come atto politico del filmare, del riconquistare il mondo e gli spazi perduti - che innalza il suo urlo energico, vitalissimo e ardito, contro le abitudini di tanto cinema nostrano, contro tutte quelle sicurezze, quel bon ton, perfino quelle intellettualità velleitarie e stantie di troppi nostri autori.

Ananke vuole disperatamente liberarsi, vuole fare del cinema un gesto necessario, salvifico, uno straordinario, catartico momento di libertà e, soprattutto, di vita. Per farlo deve combattere contro se stesso, contro i riferimenti cinematografici e letterari di cui si nutre continuamente: quelli sono i suoi demoni gentili, le sue tentazioni latenti, la casa di chi però preferisce la vita al cinema (la meravigliosa sequenza della protagonista bambina, immagine che abbatte il tempo e riporta, per una strana serie di associazioni mentali, alle fusioni temporali con cui si conclude Jauja, ultimo capolavoro di Lisandro Alonso). Osserviamo ogni inquadratura di Ananke e assaporiamo la lotta dei suoi autori, l’estremo atto resistenziale non solo nei confronti del mondo che ci circonda, ma perfino di se stessi. E’ possibile percepire in ogni minuto del film una tensione, una guerra, un’esigenza di dire filmando, ma anche un’insicurezza, una fragilità, una debolezza che rende quello di Claudio Romano un oggetto filmico appassionante e appassionato, che pulsa, vive, scuote, fino a far traballare gli eleganti piani formali di cui è composto (in una maniera paradossalmente non così differente dagli scenari apocalittico-beckettiani dell’indimenticato Cinico-Tv di Ciprì e Maresco).

Ananke eleva questa fragilità, ne fa il motore stesso del mondo, trasformandosi in un film dall’eccezionale presa anti-intellettuale, che ha un bisogno disperato di referenti – Béla Tarr, Ingmar Bergman, Andrej Tarkovskij su tutti – non come banale cifra cinefila/citazionista, ma come azione stessa del far cinema. Eppure tutti questi nomi, tutti questi immaginari, che pur ribollono sulla superficie, sono solo l’educazione di un film che poi – miracolosamente – decide di muoversi da solo. Per farlo ha bisogno unicamente di una cosa: della sincerità disarmante di chi vuole ancora credere nell’atto di filmare – che, ancora una volta, è un atto d’amore, rabbia e autoconservazione.

Tra luce e oscurità (ma nessun nero è mai privo di luce) si dipana una sorta di fusione panica, una semplicità quintessenziale alla vita stessa. Ci si chiede, allora, inebriati dal fascino di una pellicola così lontana, dove guardano i personaggi di Ananke? Qual è la direzione, la traiettoria, il fulcro del loro sguardo? Perché, a ben vedere, i due protagonisti non guardano qualcosa, ma lasciano sempre che i loro occhi si perdano, alla ricerca di un fuoricampo che scavalchi, sovverta, indietreggi di fronte agli arcani del controcampo. Ciò che sembra fungere da controcampo, che sia un albero, un paesaggio naturale o una capra, slitta immediatamente, modifica il suo statuto ontologico, non è più oggetto guardato bensì soggetto guardante. E’ così che lo spazio si annulla, i piani si sciolgono, il montaggio procede non per nessi di causa-effetto, bensì per abissi interiori e perdite progressive di una centralità, quella dell’umano stesso. Il punto, in fondo, è uno solo: i protagonisti di Ananke non guardano, ma sono perennemente guardati. C’è uno sguardo ancestrale, virgineo e antichissimo, che appartiene all’altro – che sia soggetto animato o inanimato non fa differenza. Ananke non fa altro che parlare di quest’altro come dono incondizionato, come altrove infinito da cui provengono tutte le immagini, tutte le narrazioni, gli uomini e le creature stesse. La figura umana perde così il suo diritto di soggetto, riducendosi al controcampo di una soggettiva primigenia che va ricercata nel cuore verde e pulsante della natura. E’ la natura stessa, infatti, a porre i suoi occhi invisibili sui soggetti. Sono gli oggetti, ancora di più, a essere impassibili detentori della visione. E’ una capra, nella sua imparzialità da codici morali, etici, umani, a gettare il suo sguardo disincantato sul reale. E’ Ananke appunto, la possibilità di una visione che cambi le gerarchie dello sguardo.

Il particolare degli occhi della protagonista, affondati in un bianco e nero dal sapore strepitosamente bergmaniano, è il portale d’accesso a un altro mondo. Lo sguardo, ci ricorda Claudio Romano, è sempre un varco, una breccia, una dimensione da oltrepassare: così come la finestra, inquadratura-mantra del film, è la soglia, il confine tra esterno e interno. E’ proprio questo passaggio, quest’opposizione/attrazione spaziale, a fondere luoghi differenti, a fare di ogni soglia l’anticamera di un viaggio mentale, tutto interiore (alla maniera dell’antica anamnesi). E’ l’immagine che, da sola, rende visibile ciò che è solo ricordo appassito.

Che ne è allora dei luoghi desolati, dei paesaggi indifferenti allo scorrere del tempo, al fluire delle cose, all’estinguersi degli uomini? I luoghi di Ananke sono ricettacoli interiori, paesaggi della mente, regni di una solitudine estrema e incondizionata.Ma la vera epifania è proprio questo essere parte del mondo, cosa tra le cose, corpo condannato all’eterno girovagare e ripetersi delle situazioni e degli eventi. Pensiamo a Il cavallo di Torino che disegnava la fine del mondo come la reiterazione ossessiva e terribile dell’identico: in fondo i due protagonisti del film di Claudio Romano e Elisabetta L’Innocente potrebbero essere i primi uomini del nuovo mondo, il padre e la madre che daranno alla luce una nuova vita, un nuovo modo di vedere e ricominciare a vivere.

Ananke, del resto, è il loro destino.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 13/12/2015

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