Amy - The Girl Behind the Name

La musica e la vita di Amy Winehouse, la più amata e dannata stella cadente del jazz inglese nel documentario di Asif Kapadia.

Amy - The Girl Behind the Name di Asif Kapadia si apre con le immagini della giovinezza perduta di Amy Winehouse. Il suo documentario non vuole scoprire i misteri della morte della più grande voce jazz del decennio appena sfuggito, né imporsi come opera di culto per i suoi fan (che comunque diverrà per svariati motivi). Non fa di Amy Winehouse un mito, ma ha la sensibilità degna di uno sguardo registico quasi innocente, lo stesso che è stato assente nel recente Montage of Heck. Se il film di Brett Morgen giocava sulle oscenità della vita quotidiana di Cobain, Kapadia evita di fare lo stesso, con delicatezza. Forse anche perché di Amy Winehouse il materiale d’archivio certamente sarebbe stato minore. O forse no.

Il film ha due significati. Quello ovvio, di voler raccontare il degrado di una ragazza psicologicamente debole e dalla splendida voce, stuprata dalle proprie paure, dall’Inghilterra dei soldi importanti e della droga, dai comportamenti malati ma apparentemente asintomatici di una madre e soprattutto di un padre. Il documentario inizia con la fine della sua adolescenza, l’età dell’oro dei piccoli jazz club d’Europa. Back To Black è l’apice, la mela proibita mangiata nella babilonica Camden, nel regno di Pete Doherty e l’inizio della relazione morbosa con Tyler James. Kapadia non parla e le voice over sono secondarie, suonano quasi fittizie, delle banali scuse di sensi colpa, se paragonate agli sguardi della giovane Winehouse. Nel 2003, prima dell’era Camden, usciva Frank, sincera opera jazz imperniata di testi d’amore e sofferenze giovanili. Tre anni dopo la title track di Back to Black è il sintomo del cambiamento, Kapadia rievoca indizi e malanni (I ain’t got the time and if my daddy thinks I’m fine, tanto per dirne una).

Il secondo significato è laterale, e riguarda il modo in cui Amy è sintomatico della possibilità di archiviare un’esistenza oggi, nel 2015. Dove ormai le nostre tracce sono ovunque, siamo, volenti o nolenti in costante perdita di dati, di informazioni, di segni. La causa è il cuore dell’era delle videocamere, del selfie e dello star system liquido. C’è una matematica infernale, perché se un signor nessuno come il sottoscritto il giorno della sua morte avrà materiale fotografico e video necessario per poter farne un documentario, è facile immaginare cosa possa succedere ad una star contemporanea, quasi un incubo di cronenberghiana atmosfera. Destrutturazione dell’immagine, distruzione e ricostruzione del corpo postumo, sbranato da paparazzi e flash assordanti. Il commercio delle anime morte.

La prima proiezione italiana di Amy è stata una delle più importanti nel cartellone dell’ultima edizione del Biografilm Festival, voluta fortemente dal direttore artistico Andrea Romeo, ed è stata una scelta intelligente. Perché se la tematica principale dell’edizione era “Vite Connesse” allora il documentario sulla stella cadente del jazz inglese è una dolorosa lezione sulle possibilità degli “strumenti del comunicare”.

Archimede disse una volta: «Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo». Oggi ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: «M’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri orecchi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà al ritmo e nella direzione che sceglierò io». Gli strumenti del comunicare, Marshall McLuhan.

Autore: Diego De Angelis
Pubblicato il 09/06/2015

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