Al riparo degli alberi

Viaggio alla scoperta della "Rete dei Giusti" in Emilia Romagna

Al riparo degli alberi, in concorso al ViaEmiliaDocFest2017, potrebbe darsi come ennesima piccola opera di documentazione memoriale locale e invece nella sua semplicità e delicatezza offre interstizi di riflessione ancora poco esplorati dal filone cinematografico sulla Shoah e sue diverse declinazioni (d’archivio, fiction, docufiction), la possibilità di superare la retorica della ricostruzione testimoniale e sua simbologia, ritualità, e di condurci al pensiero che ancora oggi gli uomini possano farsi materialmente resistenza e riparo reciproco, anzichè al contrario, unirci nello scavo di rimembranza di eccezionalità isolate.

Al riparo degli uomini, dunque, di carne e sangue, fatti di voleri e sentimenti, non dell’umanità come concetto astratto, inafferrabile nella sua insondabile finitudine e tensione idelogica. Eppure è da questa spirituale punta d’iceberg che si deve iniziare. Recita la sinossi “Nella tradizione ebraica quando qualcuno non c’è più il modo migliore per ricordarlo è piantare un albero, perché lì c’è il deserto e quindi un albero è una sfida: la sfida del tempo, la sfida della memoria. Giusto tra le Nazioni è invece il riconoscimento ufficiale attribuito dall’Istituto Yad Vashem di Israele ai non ebrei che, durante la Seconda Guerra Mondiale, non esitarono a mettere a rischio le loro vite pur di salvare uno o più ebrei". Diremo "la sfida istituzionale della memoria", a non dimenticare l’esempio di chi è stato resistente alle aridità del mondo e della vita. Ma anche ancora "convenzioni psicosociali" imposte dall’atroce secolo breve, che in una data iconica commemora le vittime, in un’altra commemora i salvatori, come se la complessità delle loro esistenze fosse meglio comprensibile e valorizzata, se colta separatamente.

Dall’incontro con Enzo, uno dei protagonisti del documentario, la regista Valentina Arena,giovane modenese,intraprende un viaggio (la formula del percorso in treno, quale parentesi scenica di raccordo e progressione) alla scoperta di una "Rete di Giusti dell’Emilia Romagna". Il documentario ritaglia quadri di storie familiari (anche attraverso l’ausilio di animazioni che rievochino gli episodi più critici, di cui è certo impossibile ridare cognizione non vissuta) che indelebilmente hanno segnato alcune famiglie, tanto da trasmettere ciascuna ai propri figli, nipoti persino discendenti indiretti, una sorta di responsabilità esistenziale dell’essere state le une famiglie benefattrici e le altre famiglie vittime, scampate alla deportazione, grazie al coraggio delle prime e verso queste, nipoti, pronipoti, discendenti indiretti, ancora oggi riconoscenti. Un benevolo gioco di ruoli, cui fa coda lo spettatore e le sue immedesimazioni mediate. Nel genere documentario della memoria vivente o trasmessa di padre in figlio e poi rimessa alla mercede spettatoriale, sempre torna a paventarsi una domanda topica, dissimulata dall’enfasi dell’orgoglio: come questi testimoni di seconda e terza generazione hanno impiegato verso il prossimo l’esemplarità fiera dei propri genitori ? E se non loro, ancora di più i documentaristi, vincolati al progetto a tema, perchè non azzardano (ci auspichiamo voglia farlo Arena in futuro, dal momento che chiude l’opera lanciando uno sguardo all’orizzonte) di rin-tracciare una evoluzione della rete di giusti, chi possa fregiarsi oggi di un tale riconoscimento, le forti querce che danno riparo al domani, fuor di metafora?

Resta che la missione - l’edità ?- nella sua valenza prima sia la testimonianza, che mai dovrebbe impaludarsi e inaridirsi nelle sole parole, ma affrontare la vera sfida non solo di essere monito, ma di essere vita ancora concreta, quotidiana. Quali remore, interessi, paure (non vivendo, grazie a Dio, direttamente una dittatura) ostacolano il nostro farci salvatori del prossimo d’oggi, bisognoso di ricovero? E non c’è bisogno certo di dilungarci, per scivolare nel baratro contemporaneo dell’emergenza umanitaria e diplomatica delle migrazioni di massa, che trafiggono il nostro tempo, da tempo. Infatti uno dei primissimi protagonisti tocca di sfuggita questo cuore velato della trattazione, ma lì il pensiero già naufraga e si perde. Il film diviso in capitoli titolati, prende le mosse con un altro rituale simbolico, fra i più icastici e metaforici, un rinnovo di promesse nuziali, condiviso tra famiglie. Il concetto di famiglia, nucleo base e allargato, è nell’economia del racconto, colonna portante perfettamente sovraimpressa alla morfologia traslata dell’albero, alberi genealogici, alberi d’amore e vita. La figlia di una coppia di ebrei messa in salvo, trova in questo gesto la forma migliore per ancora ringraziare, i discendenti della famiglia che nascose i suoi genitori, per la possibilità che ebbero dopo di metterla al mondo, in un mondo libero. Quella del matrimonio è una figurazione a pensarci davvero amplificante, le storie vissute e la fede nel prossimo come linfa divina, perchè l’esegesi biblica è costellata di parabole sul matrimonio infnitamente misericordioso di Dio con l’uomo, e non a caso il loro rinnovo di accoglienza: è il lebbroso, il bandito, spregiato per antonomasia, a pronunciare la formula "Lo voglio". E l’uomo fatto a immagine e somiglianza nella sua dimensione d’amore è chiamato a replicare il gesto nel sacrificio e nell’offerta di sé. Ma nè santi nè eroi, s’è detto salvatori.

Todorov, filosofo morale, distinse bene gli eroi che agiscono in nome di valori astratti (la patria, l’onore, la gloria, la giustizia) dai Salvatori, che non sono dei combattenti e si "accontentano" di proteggersi gli uni gli altri. Piuttosto che lottare contro un nemico, essi cercano di limitarne i danni; essi introducono nella Storia un "momento di umanità", essi sfoderano, nella loro umiltà misconosciuta per natura o costrizione, le cosidette Virtù Quotidiane di preoccupazione e dignità comune con l’altro, virtù alla portata di tutti, necessarie e inestimabili tanto nell’estremo che fu, quanto nella normalità che c’è.

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 24/10/2017

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