A Quiet Passion

Terence Davies mette in scena non solo la vita di Emily Dickinson, ma anche la sostanza della sua poesia.

a quiet passion recensione film

«Per un istante di estasi

Noi paghiamo in angoscia

Una misura esatta e trepidante,

Proporzionata all’estasi»

Una delle più note poesie di Emily Dickinson viene cinematografata, ovvero si scioglie nella rappresentazione, in una scena chiave di A Quiet Passion: Terence Davies esegue un lento movimento circolare della macchina da presa, che inizia e finisce su Emily, e in mezzo perlustra gradualmente l’ambiente attraversato da diversi bagliori, lampadine, candele e il fuoco nel camino, rivelando un mondo fermo, immobile nella sua stasi ma illuminato dalle luci. Emily è il fulcro propagatore, l’elemento centrale da cui l’inquadratura parte e si conclude, in altre parole il poeta: è lei che connota l’altro, “emana” ciò che sta intorno. Quando Emily prova a spiegare la grandezza delle sorelle Brontë, afferma che esse raggiungono “la poesia di ciò che è noto”: allo stesso modo i suoi componimenti, scritti nell’alveo della casa e nel guscio della famiglia, lontano dall’esperienza, alla ricerca del poetico dentro il banale. Ecco perché la ripresa sintetizza la sostanza dei versi: Emily è qui prigioniera, in gabbia (an anguish pay), e allo stesso tempo il bagliore rischiara il contesto, il suo sguardo poetico “genera” gli altri e dunque tocca il nocciolo di quella stessa poesia (ecstatic instant).

A Quiet Passion non è certamente un biopic tradizionale su Emily Dickinson. Seppure insceni la vita della poetessa nata nel 1830 e morta a 56 anni nel 1886, come sempre Terence Davies si muove quanto più lontano possibile dal mero intento illustrativo: il suo cinema non è mai esposizione o divulgazione, bensì ragiona in termini radicalmente diversi e perfino opposti, applicandosi alla messinscena di una storia solo attraverso la costruzione dell’immagine. Ecco perché non può appagare una lettura criptofemminista di questo film, che si ferma all’affresco dell’artista condannata dallo spirito del tempo, perché fu poetessa quando la scrittura era una questione maschile: «Temo che le donne in letteratura non possano creare tesori eterni» dice Samuel Bowles, l’editore che manipola i suoi versi, e questo già basta per esaurire la questione sociale e di genere. Piuttosto, A Quiet Passion si posiziona in paradossale vicinanza ai film autobiografici di Davies, come lo splendido Il lungo giorno finisce, del 1992: lì nella Liverpool degli anni ’50 Bud/Terence, giovane irlandese di famiglia ultracattolica, scopriva la sua omosessualità e l’attrazione ipnotica verso il cinema, in totale contropiede sui costumi dell’epoca e sul nucleo di provenienza. Non è forse questa, cambiando gli elementi, la storia di Emily Dickinson? Stavolta, però, Davies fa un passo inedito e riscrive la forma convenzionale del biopic: non inscena solo la donna, ma mette in immagini la sua poesia.

Emily (Cynthia Nixon in un prova da fuoriclasse) vive in un mondo in cui le donne non fanno lirica, possono solo cantare i salmi. «I don’t feel anything», afferma all’istitutrice nell’incipit, non sento niente, subito decostruendo l’etichetta religiosa dominante. «You’re alone in your rebellion» è la risposta, ed è la verità, di fatto la scrittrice è sola nel suo percorso contrario al tempo. Il sostegno che ottiene è un appoggio umano, ma non può invertire il senso della Storia. Smentendo lo stereotipo della condanna domestica, la famiglia non si oppone alla peculiarità della giovane: il padre Edward (Keith Carradine) la asseconda nel recinto delle circostanze, accordandole la possibilità di scrivere di notte; la sorella Vinnie (Jennifer Ehle) e il fratello Austin (Duncan Duff) sono entrambi molto amati, anche nei rispettivi contrasti, nella rottura della formalità e nell’adulterio dell’uomo che Emily condanna. Il legame con la famiglia è forte e duraturo. La ragazza percorre una vita ordinaria, passando dall’adolescenza all’età adulta nell’arco di una magnifica ellissi affidata all’invecchiamento di una fotografia; l’aperta ribellione giovanile diventa passione quieta in maturità, lasciando emergere il carattere a tratti, ma soprattutto frequentando sempre e assiduamente la poesia. Emily subisce il più grave torto per uno scrittore, la privazione del giudizio. «Le mie poesie hanno qualche valore?», chiede al reverendo Wadsworth, e nell’inquadratura del suo volto, nell’attesa dolente della risposta il racconto incide la profondità di una sofferenza, la gravità della violenza del secolo.

La parabola di Dickinson si intreccia alle altre figure, che reagiscono al contesto o lo seguono, e perfino entrambi come nell’autonomia a elastico dell’amica Vryling Buffam (Catherine Bailey) che sceglie strategicamente di mimetizzarsi nel matrimonio. Emily, invece, passeggia nella routine antispettacolare fino alla malattia e alla morte. Oltre ogni didascalia, Terence Davies per disegnare la sua condizione si affida a un’altra emanazione mentale, un innesto onirico che rende l’interiore tangibile: la donna immagina un uomo indefinito che va verso di lei, uno spettro sfocato che sale le scale della sua stanza. Prima la porta si apre, fiorisce la visione, poi non c’è nessuno e la porta si richiude, con la poetessa (la Poesia) mostrata solo da un tenue lume. «Amore, sei velato / E ben pochi ti scorgono / Sorridono, si alterano / e balbettano e muoiono».

Il cineasta apre uno squarcio nel discorso visivo davanti all’avanzare della morte: qui, contravvenendo al registro consueto, Davies inquadra senza risparmiare, inscena l’epilessia in lunghe riprese, diviene quasi naturalista nel concretizzare il tormento intimo della donna nel dato realista degli attacchi. Lo spasmo è in campo: Emily si contorce e dunque, ancora una volta, la sostanza della poetessa viene iscritta nell’inquadratura. «Per un’ora diletta / Compensi amari d’anni, / Centesimi strappati con dolore, / Scrigni pieni di lacrime». Ed è proprio nella morte che Emily trova la sua beloved hour: la fine della vita è anche l’inizio dell’eternità, raggiunta per interposta letteratura e qui rivista attraverso il cinema. Terence Davies tratta Emily Dickinson come trattava Liverpool nel documentario collage Of Time and the City: la riscrive nella sua forma lirica, nel suo pensiero visivo, da uno scenario al successivo, senza nulla da dire e tutto da mostrare.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 28/06/2018

Ultimi della categoria