87 ore. Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni

La morte di Francesco Mastrogiovanni raccontata attraverso le telecamere di sorveglianza dell’ospedale-lager dove l’uomo è stato rinchiuso. Un film terribile e necessario.

Costanza Quatriglio si muove agilmente tra documentario, fiction e tv facendo del cinema – o meglio, in senso lato, del racconto per immagini – luogo di indagine e soprattutto di denuncia. L’immigrazione (Il mondo addosso, 2006) e la morte sul lavoro (Triangle, 2014) sono alcune tra le tematiche che la regista siciliana ha affrontato lungo un percorso di lavoro denso e ricco, che rivela già a un primo sguardo un peso e uno spessore notevoli, non fosse altro che per gli argomenti caldi e urgenti che sceglie di volta in volta di mettere a fuoco. La volontà di raccontare la morte atroce e assurda di Francesco Mastrogiovanni appare dunque, in senso etico e politico, perfettamente in linea con la caparbia e coerente volontà di ricerca e analisi che l’autrice ha finora mostrato di fronte agli aspetti più problematici e scabrosi del presente.

La tragica vicenda di Mastrogiovanni, forse uno dei più angoscianti casi di cronaca degli ultimi anni, è nota. Fa parte, purtroppo, di una lunga catena di abusi e violenze messi in atto con studiata crudeltà e cinica indifferenza proprio in quei luoghi che dovrebbero essere di accoglienza, assistenza e tutela (ospedali psichiatrici, case di cura per disabili, ricoveri per anziani e perfino - incredibilmente - asili e scuole per l’infanzia) e di fronte ai quali la risposta della nostra organizzata e democratica società è del tutto inadeguata. Non solo nel permettere che tali atrocità accadano e continuino ad accadere ma soprattutto e colpevolmente nella difesa delle vittime e nella condanna dei responsabili.

Se un uomo venisse preso con la forza, legato a un letto, sedato e lasciato consapevolmente senza cibo né acqua per quattro giorni, probabilmente a nessuno verrebbe in mente di sollevare dei dubbi sulla natura dei fatti. Quando però a prelevare un uomo – innocente - è l’autorità costituita (carabinieri e polizia municipale), quando a costringerlo su un letto di contenzione impedendogli di muoversi, lavarsi, mangiare e bere sono sei medici e dodici infermieri, allora ogni cosa può potenzialmente mutare nel proprio contrario: la vittima, già macchiata da un’implicita ombra di ipotetica colpevolezza, è chiamata a dimostrare la propria innocenza; sugli aguzzini viene invece sospeso il giudizio fino a prova contraria, come se il potere (riconosciuto da chi?) di esercitare la violenza significasse a prescindere legittimità di questa violenza.

La mole di interrogativi e questioni che si aprono di fronte ad eventi così gravi e aberranti è immensa. Il sadismo e la follia – non solo l’indifferenza disumana - nascosti sotto la superficie di “normalità” di molti insospettabili e l’arbitrarietà della giustizia (i dodici infermieri assolti, le pene irrisorie ai medici), sono forse quelli più macroscopici. Ma il nodo fondamentale del problema, eterno, immutabile, impossibile da sciogliere, è quello relativo al potere. Sono proprio i casi come questo a dimostrare in maniera inequivocabile l’ambiguità insita nel potere in sé, perché troppo spesso l’equazione che prende forma è quella del potere come violenza, perché il potere attraverso questa violenza opera, cresce e infine pericolosamente si autolegittima. Anche entro una dimensione socio-politica apparentemente sana, la garanzia sull’imparzialità e sulla giustezza del potere non può sussistere come realtà aprioristicamente data, ma va (andrebbe) di volta in volta messa in discussione, provata, verificata. Se questo non accade, si crea gioco forza un cortocircuito nel quale a soccombere è sempre il più debole.

Fatte queste premesse, appare chiaro che 87 ore è impossibile da analizzare in quanto cinema documentario tout-court, perché la sua natura travalica il medium, perché quello che abbiamo di fronte è un oggetto – limpidissimo e tagliente – sconfinante, trasbordante, per il quale ogni catalogazione risulta sterile e inattuabile, non sul piano della forma ma per la portata della sostanza. Le immagini del film sono infatti, per la maggioranza, quelle delle telecamere di sorveglianza dell’ospedale psichiatrico San Luca di Vallo della Lucania, dove Francesco Mastrogiovanni ha trovato la morte il 4 agosto del 2009, dopo quattro giorni di agonia.

Per richiamare Bazin, Costanza Quatriglio non rappresenta l’irrappresentabile (la morte), ma si appella a un dispositivo meccanico autonomo che in questo caso annulla in partenza ogni interrogativo sulla legittimità dello sguardo spettatoriale: perché 87 ore non è un film quanto piuttosto un atto politico, civico, etico. Le immagini che lo compongono sono la prova di un delitto, non il racconto o la descrizione di un evento. La voce fuoricampo, quella della nipote di Mastorgiovanni, è la cronaca nuda e asciutta di una tragedia in cui a soccombere, mostrando la loro faccia più oscura, sono anzitutto le istituzioni alla base della nostra società. Agghiacciante, terribile e tuttavia necessario, 87 ore è un monito, è la prova di quanto sia fragile e pericoloso il territorio – sociale, civico, politico - che percorriamo quotidianamente.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 06/03/2016

Ultimi della categoria