2 giorni a New York

Nel cinema esiste una convinzione che malgrado l’assoluta indifferenza di registi e produttori si mantiene tuttora intatta: nell’ottanta per cento dei casi il sequel di un film è di livello inferiore rispetto al primo. Ma capitalizzare un successo cinematografico è l’imperativo del marketing, quindi anche se il pubblico rimane deluso, lo è solo dopo aver pagato il biglietto e portato soldi in casa. Davvero però non si capisce bene il senso di 2 giorni a New York, quando anche il punto di partenza, 2 giorni a Parigi, non si era dimostrato granché interessante. Il progetto di partenza di Julie Delpy era di raccontare se stessa divisa fra radici francesi e il trasferimento da adulta in America: il classico scontro fra due mondi e due culture differenti, non un’idea originalissima certo, ma comunque un concept da cui si poteva trarre qualcosa di gradevole anche grazie al contributo attoriale della madre (Marie Pillet) e del padre (Albert Delpy) come genitori della protagonista alter ego dell’attrice; e per quanto non riuscitissimo 2 giorni a Parigi si manteneva quasi a galla con qualche buona battuta e un’innocente e infantile leggerezza per tutto il racconto.

Avevamo lasciato Marion, fotografa in trasferta negli Stati Uniti, appena riappacificata con il suo compagno dopo due tragicomici giorni in Francia con la chiassosa e ridanciana famiglia di lei. Ora dopo aver avuto un figlio, i due si sono lasciati e la donna ha formato una nuova coppia con il collega di colore Mingus (Chris Rock), anch’esso con una figlia nata da un rapporto precedente. Un terremoto però si appresta a invadere la loro casa: il padre, morta la madre, viene a trovarla in America con la sorella e il suo nuovo fidanzato Manu, ex di Marion, proprio in concomitanza con l’imminente apertura di una sua mostra personale molto importante, mettendo a dura prova i nervi e la solidità dei due conviventi che credevano di conoscersi – e sopportarsi – molto bene. Un supplizio per loro, ma anche per lo spettatore dato che 2 giorni a New York, a corto di idee, prende in prestito proprio gli aspetti peggiori del primo film, forse pensando di doversi adattare al pubblico americano. Battute a sfondo sessuale rilanciate fino allo sfinimento, isterismo urlante, grossolani giochi degli equivoci, la regia di Julie Delpy che spinge l’acceleratore sperando di nascondere sotto il gran frastuono di litigi e citofoni assordanti la sostanziale esilità del plot, che trova il suo punto più alto nel cameo di un’indecifrabile Vincent Gallo che spunta fuori dal nulla.

Quel che rammarica è sentire nel racconto un’innegabile trasporto sentimentale da parte della regista francese così strenuamente legata alla propria infanzia, nonché un interesse genuino per le dinamiche relazionali. Se una persona è quello che è anche grazie – o per colpa – della propria famiglia, quanto conta allora il modo in cui il partner si riallaccia accettando, o rifiutando, le origini dell’altro? Suggestioni che Delpy insegue senza mai concretizzarle in un discorso reale, persa nella confusione dei propri intrecci narrativi appesantiti dalla voglia di accattivarsi le simpatie di una fetta più grande di pubblico con temi triti e ritriti. C’è l’europeo che prende il giro l’americano di colore perché sostanzialmente li immagina tutti come rappers che parlano per slang, l’americano di colore che parla da solo con il cartonato di Obama, l’ossessione francese per il sesso, il critico artistico cattivo, finendo in un miscuglio non ben amalgamato di Woody Allen e Bridget Jones. Di tutto ciò rimane solo un’occasione perduta e un’ultima paura: che prima o poi ne venga fuori un terzo film.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 16/08/2014

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