12 Citizens

Un remake nel senso più limitato e povero del termine, un’operazione di trasferimento narrativo priva di personalità e autentica riscrittura

12 uomini rinchiusi in una stanza impegnati a decidere le sorti di un giovane imputato accusato di patricidio. Apparentemente sono tutti d’accordo nel decretarne la colpevolezza, ma uno di loro insiste invece nel lasciare spazio al dubbio, obbligando gli altri 11 ad una lunga ed estenuante riflessione. La parola ai giurati di Reginald Rose è sicuramente uno dei testi teatrali di maggior successo del Novecento, un dramma giudiziario a scatola chiusa che alla fama del palco ha aggiunto quella cinematografica, grazie alle ripetute trasposizioni audiovisive cui è stato soggetto. Su tutte resta imbattuto il capolavoro del 1957, l’incredibile esordio con cui Sidney Lumet ci ha regalato una lezione di regia e di cinema civile. Al corposo elenco si aggiunge ora questo 12 Citizens (Shier gongmin), ma piuttosto che essere un ulteriore adattamento il film di Xu Ang è una copia carbone della versione di Lumet, ricalcato fin nei minimi particolari.

Nonostante sia un regista cinematografico esordiente, Xu Ang arriva al grande schermo dal palco del Teatro d’Arte Popolare di Pechino, dove ha diretto diverse commedie di successo. Dalla sua scelta di confrontarsi con il testo teatrale di Rose c’era allora da immaginarsi un’intenzione personale di lavorare sugli spazi e le scenografie fisiche di un film ambientato in un unico set (la stanza del dibattito tra i giurati). Un kammerspiel serrato come questo rappresenta del resto una sfida per qualunque regista, teatrale o meno. Purtroppo Xu Ang disattende totalmente queste aspettative, facendo del suo 12 Citizens un remake nel senso più limitato e povero del termine, un’operazione di trasferimento narrativo priva di alcuna vera riscrittura. Gli unici interventi intrapresi da Ang sono quelli necessari alla nuova collocazione spaziotemporale del film, ma nessuno di essi denota uno sguardo e una presa di posizione personali. Il processo che fa da cornice diventa qui una finzione scolastica, una sorta di esercitazione svolta dagli studenti di una Facoltà di Legge. Per concludere il loro esame infatti i ragazzi hanno dovuto coinvolgere i propri genitori, chiedendogli di prestarsi come giurati. Tute le prove e le ricostruzioni presentate in sede di tribunale e discusse nel corso del film dai 12 giurati sono allora elementi totalmente finzionali, parti della sceneggiatura che di fatto costituisce l’esame. Questa meta-scrittura però non diventa mai origine di riflessioni e discorsi, per Ang sembra semplicemente l’escamotage necessario a mettere in piedi il film, essendo il sistema legale cinese privo di giurie popolari di questo tipo. Da qui derivano alcuni piccoli elementi dissonanti, ma sono davvero rarità insignificanti all’interno di un film che guarda al suo precedente come a un modello da imitare in tutto e per tutto, dalla sceneggiatura ripresa quasi totalmente alla gestione del set. Tutti i giurati sono addirittura seduti nella stessa posizione del film di Lumet, molti di loro indossano capi simili e seguono le stesse movenze gestuali. Lo stesso protagonista ricalca la recitazione dimessa e umile di Henry Fonda, ennesimo segnale della generale mancanza di personalità dell’operazione.

A fronte di questa mimesi così estrema viene allora da chiedersi quale sia il senso dell’operazione, che forse esiste soltanto se collocata nel suo contesto nazionale, in relazione ad un pubblico per la maggior parte digiuno al film di Lumet. In questo caso 12 Citizens potrà anche piacere, in quanto qui non è certo la tecnica cinematografica o attoriale a mancare. Tuttavia per chiunque cercasse nel film di Ang un perché più profondo resterà totalmente deluso, trovandosi di fronte la versione alternativa ma a ribasso del grande film originale. In questo regno dell’imitazione infatti a venir meno sembra proprio la sostanza, lo spessore registico di Lumet e la sua lucida intenzione civile e democratica.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 19/10/2014

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