YellowBrickRoad

Uno degli esempi più riusciti della (parziale) riscossa della messa in scena “classica” nel cinema horror contemporaneo, dopo gli anni egemonizzati dal “virus” della Strega di Blair

L’uscita nelle sale di The Blair Witch Project nell’anno di grazia 1999, giusto al declinare del millennio, rappresentò una svolta epocale per il cinema dell’orrore, a prima vista per un motivo molto semplice e persino banale nei suoi presupposti: in quel periodo, l’horror cinematografico versava in condizioni critiche e niente faceva pensare a una sua possibile rinascita. TBWP non si impose, però, soltanto a causa del deserto ideativo e produttivo in cui il cinema del brivido languiva pressoché a livello planetario, ma anche grazie alla sua capacità di inserirsi in tale contesto, proponendo qualcosa di nuovo e di inaspettato, anche se, in realtà, non del tutto inedito e nemmeno così imprevedibile. Capostipite del found footage, del mockumentary e del POV (o film in soggettiva) di nuova generazione, TBWP, come è noto e come è stato ampiamente dibattuto, fu in realtà erede più o meno diretto e forse inconsapevole di filoni interi già esistenti e contestualizzati, come i “mondo movie” italici; di due geniali antesignani del POV come Una donna nel lago di Robert Montgomery e La fuga di Delmer Daves, entrambi del ’47; in ultimo, e soprattutto, di due lavori seminali e più strettamente interrelati col titolo in questione, come Il cameraman e l’assassino (1992) di Belveaux/Bonzel/Poelvoorde e Cannibal Holocaust (1980) di Deodato. TBWP estremizzò però del tutto il portato linguistico, stilistico e persino filosofico dei suoi anticipatori/predecessori, non ultimo proprio Cannibal Holocaust, collocandosi in una sorta di zona audiovisuale autonoma e, almeno all’epoca dell’uscita, radicalmente autarchica rispetto all’esistente, in quanto opera capace di far coincidere del tutto l’apparente farsi-del-film con il film stesso (lo faceva già Il cameraman e l’assassino, comunque), di condurre il gioco all’interno di un unico piano della rappresentazione, e infine di valorizzare appieno l’estetica pauperistica, scarna, amatoriale e “sgrammaticata” della messa in scena, con funzione di innesco “veridico” – unitamente al totale anonimato degli interpreti – dell’universo narrativo raffigurato. Inoltre, va notato come non sia mai esistito prima e come, forse, non esisterà in futuro un film capace di vivere così intensamente la doppia vita della sala e dell’immaginario, con quest’ultimo a risultare, all’epoca, ampiamente solleticato prima della visione stessa, grazie soprattutto a una campagna di marketing senza precedenti, in grado di mettere genialmente a profitto le possibilità di diffusione virale offerte dalla Rete. Alla fine dei ’90, l’estensione di Internet cominciava certo a risultare capillare, ma non era ancora così globale da consentire allo spettatore potenziale di conoscere ogni aspetto della produzione di un film indie e misterioso come TBWP, perciò la curiosità generale ne venne grandemente stimolata. Proprio in quest’ultimo punto va probabilmente ricercato uno dei motivi principali del successo clamoroso del film di Myrick e Sanchez, cioè nel suo aver saputo sfruttare l’indiscernibilità fra vero e falso, fra elementi documentali e finzionali degli eventi narrati come propulsore del morboso interesse del pubblico, oltretutto anticipando profeticamente la moltiplicazione e sovrapposizione odierna di apparati testuali e audiovisuali – e conseguentemente delle molte possibili “verità” di cui tutti indifferentemente si ergono ad alfieri – all’interno delle varie piattaforme massmediali più diffuse.

Col senno di poi è possibile notare, tuttavia, come i motivi del successo di TBWP ne costituiscano anche i limiti maggiori. Innanzitutto, se è vero che la sgrammaticatura concepita come nuova grammatica e la sciatteria della messa in scena come nuova categoria estetica hanno una piena giustificazione di carattere narrativo, emotivo e “veridico”, è anche vero che troppe sono le regole che Myrick e Sanchez si sono imposti, per portare a termine il loro esperimento. Ogni regola è in automatico una limitazione e poco importa che ne vengano superate altre (comunque già ampiamente messe in discussione prima che Myrick e Sanchez si cimentassero col loro lavoro, e con ben più pregnanti esiti teorici), come i codici consolidati del racconto, l’articolazione di una sintassi filmica intelligibile, l’utilizzo emotivo o espressivo dei raccordi o della scala dei piani, perché la libertà così acquisita verrà, appunto, perduta altrove. Mentre il mockumentary, in quanto tale e considerato separatamente, ha dei margini di ideazione ancora sufficientemente ampi da consentire soluzioni disparate e talora inaspettate, il POV e il found footage (col primo a fungere, sovente, da “contenitore” tecnico-sintattico del secondo), una volta portati alle estreme conseguenze, conducono all’asservimento di pressoché ogni altro elemento della messa in scena. Ecco allora che l’emancipazione dalle costrizioni produttive, in sostanza dalle catene imposte dal(l’alto) budget, oltre che dallo sviluppo di un linguaggio filmico complesso, si trasforma repentinamente nel vincolo di ancorare lo sguardo a un punto di vista statico (un POV, appunto), in quanto organico esclusivamente all’apparecchio di ripresa diegetico. In secondo luogo, il gioco fra l’identificazione primaria e quella secondaria dello spettatore, che si sovrappongono nel continuo compenetrarsi reciproco, amplificato dal corrispondere della soggettiva del personaggio filmante (e quindi guardante) con quella dell’apparecchio di ripresa, finisce alla lunga con l’appiattire e uniformare l’articolazione linguistica e tecnica. Infine, l’assenza di un’autentica stratigrafia del reale, dovuta all’immersione totale in un unico piano della rappresentazione, annichilisce la complessità dello sguardo nel suo rapporto problematico col profilmico e, per ciò stesso, avvilisce le innumerevoli possibilità offerte dal cinema, avvicinandolo oltretutto pericolosamente all’estetica e alla sintassi da videogame.

Dal canto suo, la lunga pletora di eredi, figliocci, figliastri e imitazioni di TBWP ha saputo trarre le debite conseguenze teoriche della - per molti versi castrante - rivoluzione visuale portata da Myrick e Sanchez solo in alcuni rari esempi, su tutti, Redacted (2007) di De Palma e Diary of the Dead (2007) di Romero, capaci di costruire dei complessi marchingegni audiovisuali e linguistici come vigorose metafore della contemporaneità; oppure ha prodotto esercizi di stile talora ingegnosi, come Rec (2007) di Plaza/Balagueró; mentre, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha fatto altro che ripetere stancamente stilemi e trovate del capostipite, magari aggiornati ai nuovi media e alle tecnologie emergenti, ma quasi sempre svuotati di ogni funzione riflessiva, linguistica o espressiva. In breve, ciò che si proponeva come inarrivabile novità e punto di non ritorno per l’orrore cinematografico ha finito con l’invecchiare in fretta, col mostrare la corda e con l’isterilirsi.

Nell’odierna proliferazione esponenziale di titoli horror, indipendenti o supportati da major e provenienti in maggioranza dagli USA, nonostante il “virus” portato dalla strega di Blair sia ancora tutt’altro che debellato, si sta assistendo al ritorno compatto di una costruzione filmica più orientata al linguaggio tradizionale, quindi a un riaffacciarsi del mythos sfrondato da ogni orpello sovrastrutturale. Per questo, inizia anche a riaffermarsi la potenza espressiva del cinema, con le sue molteplici articolazioni tonali o ritmiche e con i suoi innumerevoli slittamenti progressivi dello sguardo.

È su quest’ultimo versante che si può collocare YellowBrickRoad, non solo o non tanto per il suo ricorso a una costruzione visiva fondamentalmente classica, almeno nello sciogliere lo sguardo dalla dimensione di soggettiva persistente, quanto piuttosto per il suo costituirsi come guanto rovesciato, specchio deformante, sorta di rilettura/remake, dai tratti tradizionali, proprio di TBWP: uno dei possibili antidoti contro il “virus”. YBR utilizza un canovaccio pressoché identico a quello di TBWP: un gruppo di ricercatori, guidati dai due coniugi Teddy e Melissa Barnes (Michael Laurino e Anessa Ramsey), si inoltra nei boschi che circondano la piccola cittadina di Friar, nel New England, per far luce su un mistero risalente a parecchi anni prima, cioè la scomparsa, nella selva, dell’intera popolazione del villaggio, sulla misteriosa “Yellow Brick Road” (allusione esplicita al Mago di Oz del ’39, e implicita alla possibilità che gli abitanti di Friar si siano inoltrati sulla “strada di mattoni gialli”, per un impulso irresistibile suscitato proprio dalla visione del film di Fleming); eppure, nonostante le apparenti corrispondenze, i conti non tornano. TBWP si affidava alla cadenza sfilacciata e monocorde delle riprese finto-amatoriali, collegate fra loro in guisa di mera giustapposizione, quindi incapaci di conferire continuità e progressione drammaturgica alla vicenda, vivificata, solo a tratti, dall’utilizzo subliminale delle sonorità e dall’incombere delle molte zone d’ombra sull’incerta illuminazione delle immagini; solo il finale era in grado di trovare un’autentica impennata emotiva. YBR tratteggia, invece, un universo segnico e linguistico di notevole complessità, nel quale ogni elemento della messa in scena contribuisce all’edificazione dell’architettura significante del film, tuttavia senza mai abbandonare la salutare strada dell’ambiguità. Jesse Holland e Andy Mitton orchestrano una partitura dalle molte sfumature, in cui a dominare sono le svariate tonalità del fraseggio cinematografico, pur essendovi dei ricorrenti Leitmotiv, capaci di non smarrire mai l’orizzonte complessivo dell’insieme.

A risaltare, nel più immediato livello di significazione, sono i rapporti interni al gruppo di ricercatori, quelli fra personaggi e ambiente, infine quelli fra uomo e tecnologia. La struttura narrativa fa sì che i tre insiemi si compenetrino vicendevolmente in un’interazione continua, dalla quale nascono poi gli scarti, i (falsi) progressi e le deviazioni del racconto. La tutt’altro che inedita difficoltà antropica nel misurarsi con la Natura e i suoi misteri viene resa nel film attraverso l’espediente, facile ma efficace, del malfunzionamento degli strumenti di orientamento (bussole, navigatori satellitari, dispositivi ottici di misurazione topografica), da cui derivano, a un tempo, la deriva psichica e quella fisica dei personaggi. Di qui l’emergere dell’ostilità dell’ambiente circostante verso i visitatori – vissuta interiormente e sottopelle più che avvertita fisicamente – e dei primi dissapori all’interno del gruppo. A partire da questo schema narrativo (pienamente operativo anche in TBWP) tipico del survival, Holland e Mitton lavorano di cesello per condurre i personaggi, e con essi lo spettatore, alle soglie di una follia sottile e disturbante, che si insinua nello strato umbratile del subconscio più che in quello esposto della coscienza. Specie a partire dalla seconda metà del film, quando sembra farsi più intensa l’influenza del bosco maligno, all’interno del quale si perde la “strada di mattoni gialli”, ricorrono impercettibilmente delle “soggettive senza soggetto”, vale a dire delle riprese in cui non vi sono personaggi riconducibili a tali sguardi, pur non trattandosi neppure di mere inquadrature oggettive di descrizione ambientale o con compiti narrativi. Sembra piuttosto che la mdp sospenda la sua funzione di costruttrice di senso e si limiti a osservare (una sorta di “occhio nella materia”, ben distante da un mero POV), senza doversi dichiarare come strumento tecnologico coestensivo alla diegesi, e assolvendo, nel contempo, il duplice compito di mostrare frammenti di quel mondo stregato e di far smarrire ulteriormente lo spettatore assieme ai personaggi. Un ruolo di rilevo ancora maggiore è ricoperto da quello che, probabilmente, è l’elemento più importante della messa in scena, cioè la “soggettiva sonora collettiva” che travolge i ricercatori a partire dalla metà del film: un’interminabile nenia swing acusmatica (specie di suite infinita), proveniente da un tempo indeterminato anziché da un luogo determinato, che i personaggi, e con loro gli spettatori, odono provenire dal profondo della selva, come se un vecchio disco polveroso girasse, senza requie, su uno sconnesso grammofono. Non è dato sapere se si tratti di un’allucinazione, anche se molti elementi del racconto spingono in tale direzione: di qui il configurarsi del tappeto musicale come una “soggettiva sonora”. Si tratta di un coup de théâtre che, all’improvviso, inizia a riconnettere il presente al passato mitico della leggenda di Friar, ma anche i personaggi ai propri ricordi e alle proprie ossessioni personali, disconnettendoli però poco a poco dal loro contatto con la realtà e facendoli gradualmente sprofondare nella demenza più completa. Alla follia dei personaggi corrisponde un’intensificazione del dispiegarsi del linguaggio cinematografico, grazie al quale elementi classici e moderni si trovano a coesistere in dissonanze “tattiche”, che conducono però a un’armonia “strategica” complessiva: l’utilizzo della camera a mano, con cui buona parte delle riprese vengono effettuate, si lega all’archetipico montaggio alternato e parallelo; l’utilizzo straniante della musica sottolinea e accompagna il crescente sonno della ragione di cui sono preda i membri della spedizione; la geometria dell’immagine disperde e ricollega, per poi disperdere ancora, il vuoto girovagare dei ricercatori, sempre senza perdere di vista la logicità dell’irrazionale, la sua inevitabile e matematica progressione.

L’obiettivo principe di Holland e Mitton sembra quindi quello di far dialogare il Vecchio e il Nuovo del cinema horror: un momento di gore “analogico” di rara violenza, proprio in quanto isolato, aggredisce lo spettatore, adagiato sul ritmo trasognato che scandisce la quasi totalità del film; due brevi sequenze di found footage, la prima nell’incipit del film e a pieno schermo, la seconda verso la conclusione e costruita però secondo la sintassi tradizionale, rimandano alle radici dell’horror contemporaneo, ma superandolo, guardando oltre (o più indietro?). In breve, ciò che più preme ai due registi sembra essere una libertà compositiva in cui il Vecchio e il Nuovo (anche se si tratterebbe di capire se il Nuovo non sia ormai più vecchio del Vecchio) non si escludano a vicenda, ma dialoghino fecondamente in vista di un ritorno al cinema, nella sua più vasta accezione e soprattutto assecondando le sue molteplici potenzialità linguistiche ed espressive, senza piegarsi a limitanti dogmi stilistico-estetici. A tal proposito, va notato come non sia un caso che il viaggio del gruppo cominci proprio in un cinema (il “Rialto” di Friar) e si concluda, per Teddy, l’ultimo sopravvissuto della spedizione, parimenti in un cinema, che sembra comparire dal nulla e che forse è lo stesso dell’inizio, trattandosi verosimilmente del Rialto, così com’era 70 anni prima. Teddy, dopo essere stato ricevuto da una strana maschera (Lee Wilkof), che dichiara di essere anche il regista del film in proiezione in sala, si siede, convinto di potere finalmente cogliere il senso della sua malsana avventura e di scoprire cosa ne sia stato dell’amata moglie; una figura femminile si staglia sullo schermo: è Melissa, circondata da un ambiente brullo, sterile e in fiamme; per un attimo si scorgono anche, in sovrimpressione, i volti spettrali degli antichi abitanti di Friar seduti sulle poltroncine attorno a Teddy, mentre Melissa, dall’altrove del film-nel film gli ripete più volte “This is our home”. Non manca niente: ci sono i fantasmi in sala, c’è il fantasma sullo schermo e, sì, ci si può sentire di nuovo a casa.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 26/05/2017

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