Vizio di forma - Journey Through the Past

When the winter rains

come pourin’ down

On that new home of mine,

Will you think of me

and wonder if I’m fine?

Difficile tornare su Vizio di forma senza ritrovarsi a sentire ancora una volta Neil Young e il suo viaggio nel passato, a vedersi consegnata attraverso quella melodia la chiave per accedere ad un regno di nostalgia e fantasmi, una dimensione ectoplasmatica in cui i ricordi prendono forme malinconiche e pericolose. Del resto tutto il film, biblicamente, è frutto dell’evocazione della parola di Sortilège, personaggio in origine comprimario che nel film di Paul Thomas Anderson diviene voce narrante capace di stregare la storia e i suoi personaggi. E questo perché Vizio di forma si è rivelato essere qualcosa di totalmente diverso da quanto il romanzo di Thomas Pynchon lasciava presagire.

Lontano da ogni postmodernismo coeniano o overdose lisergica alla Gilliam/Hunter Thompson, l’adattamento di Anderson è anzitutto una storia d’amore e di fantasmi, l’occasione per riflettere sul fallimento di un’epoca e assieme ricordare i fasti di un amore e di un cinema che fu. Uno scarto che abbandona ogni destrutturazione e citazionismo, per farsi semplicemente elegia. Anche l’esclusività cerebrale di The Master, film meraviglioso ma di certo non aperto emotivamente nei confronti del suo spettatore, trova qui una via di fuga, un superamento comunque figlio di un percorso stilistico e concettuale di estrema coerenza. Del resto da Il petroliere il cinema di Paul Thomas Anderson è andato incontro a cambiamenti radicali, imbarcandosi nella ricerca di un equilibrio tra nostalgia e sguardo personale, un viaggio che in Vizio di forma trova la sua tappa più calda ed emotivamente coinvolgente.

Noir allucinato e onirico, Vizio di forma è per noi uno dei grandi film di questa stagione cinematografica, un tassello troppo prezioso per non tornare a scriverne. Del resto il risultato dell’incontro tra Pynchon e Anderson è un film che appare come un ipertesto, una fonte infinita di suggestioni e spunti tra i quali abbiamo cercato di individuare tre direttrici. La prima, affidata ad Attilio Palmieri, esamina l’incontro tra il regista e il romanziere per riflettere sulle modalità dell’adattamento. Non ci si concentra però sulla fedeltà più o meno mantenuta, piuttosto si guarda al potere di evocazione del film e al modo in cui Anderson trasporta l’intreccio originale in una dimensione ben più onirica e allucinata. Il secondo articolo, a cura del sottoscritto, vuole invece ripercorrere l’opera di Anderson rintracciando al suo interno i principali stilemi che negli anni hanno caratterizzato la figura del detective privato, dal noir classico alla sua crisi fino al citazionismo nostalgico del post-noir. Per farlo vengono presi come riferimento Vertigine di Otto Preminger e La conversazione di Francis Ford Coppola, estremi di un viaggio tra sogno e paranoia allucinatoria. Infine a Samuele Sestieri spetta il compito di affrontare quel corpus di opere che sempre più va a delineare il racconto di un Novecento andersoniano, esplorato attraverso la figura del doppio. Ogni film di Anderson è infatti l’incontro/scontro di coppie dicotomiche, le cui ambigue relazioni divengono spesso rappresentazioni esemplari delle idiosincrasie di un’epoca e dei suoi meccanismi di potere.

Buona lettura.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 09/03/2015

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