Vinyl 1x09 – Rock and Roll Queen

“Rock and Roll Queen” è un episodio di epifanie e rinascite, che conduce i personaggi e gli spettatori verso lo scioglimento delle principali linee narrative

Dopo un’ottava puntata in cui molti dei nodi cruciali della serie sono iniziati a venire al pettine, accompagnando con i migliori auspici lo show della HBO verso il finale, arriviamo al penultimo tassello di questa prima stagione di Vinyl. Purtroppo, come ormai da qualche giorno è noto a tutti, quello di cui parliamo è anche il penultimo episodio della gestione Terrence Winter, il quale dall’anno prossimo non sarà più lo showrunner della serie. Dalle poche dichiarazioni pubbliche pare che la ragione sia legata a poco specificate divergenze creative, rispetto alle quali non si sa nulla e quindi sarebbe sbagliato fare inutili supposizioni. Ciò che si sa però è che a sostituirlo sarà Scott Z. Burns, writer-producer attivo soprattutto in campo cinematografico (è co-sceneggiatore ad esempio di quel gioiello di The Bourne Supremacy), chiamato a dover ricoprire un ruolo estremamente scomodo, per il quale sarà fin dal primo minuto sotto esame.

Oggi però parliamo d’altro, perché a richiedere la nostra completa attenzione è l’ennesimo notevole episodio di Vinyl, in cui la tragedia greca costruita da Winter giunge definitivamente al suo ultimo atto, sia per quanto riguarda il cammino dei protagonisti, sia rispetto al completamento dell’affresco culturale che la serie sta realizzando, che con questo episodio si arricchisce di nuove e fondamentali sonorità. Il tragico recita sicuramente la parte del leone, soprattutto nell’ambito della relazione tra Richie e Devon, i quali sono sempre più al centro di una sorta di scene da un matrimonio a tinte seventies. Tutti i personaggi sono questa volta chiamati a una presa d’atto importante rispetto alla propria vita, abbracciando un senso di responsabilità inedito sottolineato nella prima parte dell’episodio dalle note di “C’mon Everybody” di Eddie Cochran

L’evoluzione di Richie, arricchita dalla complessità di un personaggio sul quale il lavoro è stato costante, arriva in questo episodio a un punto di non ritorno sia dal punto di vista dell’introspezione sia da quello più strettamente legato al plot, vista la sua centralità nel magma delle storyline della serie.

Lo incontriamo in prigione, spalle al muro di fronte alle prove incontrovertibili della polizia, rispetto alle quali Richie non può che temporeggiare, in attesa di una presa di coscienza che arriverà solo nel finale, quando si incontreranno le riflessioni sulla sua esistenza, sul suo matrimonio e sul suo operato dal punto di vista lavorativo.

Ad avere un ruolo di primo piano questa volta è la trama gangster che rivela i debiti/omaggi verso quel genere e quell’estetica che da Goodfellas arriva a Boardwalk Empire passando per The Sopranos. Quello di Richie è però un agire privo di eroismo, fatto di tentennamenti e insicurezze, perfettamente in linea con la sua attuale fragilità, acuita da un’astinenza che per la prima volta sembra essere perseguita con convinzione. Non siamo di fronte infatti al Nucky Thompson protagonista della precedente serie di Terrence Winter, non c’è nulla in lui di quella consapevolezza e quella determinazione; Finestra, pur muovendosi su una strada di cui possiede per la prima volta almeno parte delle coordinate, è sormontato dalla paura, soggiogato dal terrore verso un mondo di cui solo ora riconosce davvero la pericolosità.

A destare grande interesse dal punto di vista narrativo è l’evoluzione del personaggio di Devon, condotta attraverso una riflessione teorica sia sull’arte che sui generi sessuali. La donna – a cui Olivia Wilde dona un’interpretazione sempre più convincente – sta completando un percorso di grande complessità, passando gradualmente da oggetto a soggetto dello sguardo. Se la sua introduzione così come la sua rappresentazione nel passato erano legate a un’immagine prevalentemente bidimensionale, fatta per essere esaltata o trafitta da occhi e pensieri altrui, la Devon attuale sta affrontando la propria travagliata esistenza prendendo il coraggio a due mani, le stesse con le quali impugna la macchina fotografica per immortalare il decadente mondo in cui è immersa e in particolare il risultato della (auto)distruttività del marito (l’ormai famoso scatto della chitarra di Bo Diddley dentro al televisore).

Questo tipo di atteggiamento si riflette anche e nella sua vita privata che la vede passare da moglie trofeo, scelta perché più bella delle rivali e relegata in Connecticut con la prole, a donna indipendente che (per parafrasare una famosa canzone di De André) smette di farsi scegliere e inizia finalmente a scegliere i propri uomini. Devon gira attorno a Billy come soggetto attivo, fino a inchiodarlo con il proprio obiettivo compiendo un gesto simbolico di grande potenza.

Una forte scossa narrativa la subisce, finalmente, anche il personaggio di Jamie – a cui Juno Temple stavolta offre un’interpretazione egregia – la quale a seguito della definitiva rottura con la famiglia approfondisce il sodalizio con i Nasty Bits. La sua evoluzione è in questo caso di grande interesse proprio perché esce dal tracciato maestro che la accomunava in maniera eccessiva alla Peggy Olson di Mad Men, prendendo invece una deviazione più originale, figlia della seduzione, del vizio e del godimento, che la porta lontano dal classico carrierismo femminile e la conduce verso un’emancipazione individuale che è prima di tutto sessuale.

Non c’è dubbio che la donna si rifugi nella tana più sicura, abbandonando la sfida della scalata lavorativa – per la verità abbstanza compromessa, anche per sue responsabilità – ma così facendo può finalmente liberare il proprio edonismo scegliendo di essere la Rock and Roll Queen (come il titolo della canzone cantata dai Mott the Hoople che la accompagna nella bellissima scena con i due membri della band). Non è una posizione facile, ne da gestire né da giudicare dall’esterno, perché Jamie ha varcato una soglia dopo la quale l’equilibrio inizia a essere sempre più precario, in cui il confine tra la donna emancipata e padrona del proprio copro e l’oggetto sessuale di due rockstar è più labile che mai.

Tutta la sequenza che vede Jamie con Alex e Kip può essere adeguatamente interpretata solo se la si inquadra come la diretta conseguenza del violento litigio tra la ragazza e la zia, che su ordine della madre la caccia bruscamente di casa. È con grande perizia, infatti, che la macchina da presa di Carl Franklin mostra il particolare delle ferite sulla spalla sinistra di Jamie provocate dalla caduta sull’uscio della porta di casa della zia, riempiendo così di senso la sequenza del threesome e il percorso di Jamie tout court.

A sorprendere in positivo è anche il personaggio di Clark, fino a questo momento privo di un solido plot personale, ma proprio per questo libero di poter correre a briglie sciolte verso il ruolo di alfiere numero uno del racconto storico-musicale della serie. In quest’episodio infatti la sua figura assume un’importanza fondamentale, in quanto gli viene accreditata la responsabilità di condurre gli spettatori alla scoperta dell’avvento della Disco Music.

C’è un’indescrivibile poesia nella scena del club, dove al momento dell’entrata di Clark si sta suonando “Soul Makoosa” di Manu Dibango, salvo poi provare con un nuovo disco che porta con sé una tremenda scossa tellurica sia a livello musicale che simbolico. Quando viene fatta partire “Kill the Lights” (realizzata appositamente da dj Cassidy, con la voce di Alex Newell e il contributo della leggenda Nile Rodgers) si assiste a una vera e propria epifania musicale, una sorta di miracolo in cui il tempo sembra sospeso ma contemporaneamente pare scorrere alla velocità della luce. Alle prese con un sound sconosciuto a magnetico i presenti reagiscono inizialmente con un fisiologico spiazzamento, per poi essere essere travolti da sonorità pervasive che li portano a ballare in un nuovo modo, a toccarsi e a corteggiarsi come mai prima d’ora, lasciandosi finalmente andare a una nuova e liberatoria comunione tra corpo e musica.

L’episodio però non può che concludersi su Richie, chiudendo all’insegna della (auto)liberazione il cerchio iniziato con la sua condizione di cattività. Sono cocci aguzzi di bottiglia quelli sui quali si muove il protagonista e le ferite infertegli dalle due persone a lui più vicine – Zak e Devon – sono l’unico viatico verso una purificazione che abbia un minimo di credibilità. Nonostante la presa di coscienza di inizio episodio, le incertezze di Richie sono molteplici, alcune delle quali dovute a orecchie ormai non più abituate ad ascoltare chi gli sta intorno, a partire da Andrea della quale non riesce a capire lo sforzo che sta facendo e il talento che la donna gli sta mettendo a disposizione, nonostante un passato non meno traumatico del suo.

È l’improvvisa consapevolezza di Zak a dare il là a tutto, con la sua successiva reazione violenta e la rissa in ascensore. Solo leccandosi il sangue delle ferite procurategli dal suo migliore amico Richie comprende davvero l’abisso in cui è caduto, facendo di quella resa dei conti un bivio morale senza ulteriori possibilità di procrastinazione che lo porta prima di tutto dai propri figli, in un abbraccio catartico, avvolto dal senso di colpa nei loro confronti e accompagnato dall’incantevole “Blues Run The Game” si Simon & Garfunkel.

L’ultima tappa per la rinascita è l’incontro chiarificatore con Devon in cui per la prima volta Richie ritrova se stesso, si mette a nudo, denuncia le sue colpe senza alcuna intenzione di arrampicarsi sugli specchi e in una splendida New York puntellata dai riflessi delle luci notturne non cerca una risposta dalla moglie e nemmeno il perdono o una giustificazione, ma solo ascolto, solo la possibilità di dimostrare a entrambi di essere davvero cambiato (o almeno di aver iniziato un percorso), meritandosi poi una struggente uscita di scena sulle note di “Hey Joe” rifatta da Lee Moses.

Solo una volta tornato a casa avverrà l’epifania definitiva, dopo aver contemplato un ultima volta la sua solitudine in un appartamento buio e desolato. Una presa di coscienza che passa per la nuova canzone dei Nasty Bits, un ascolto che lo conduce finalmente ad avere quella forza che gli mancava a inizio episodio, quel coraggio di fare l’accordo con la polizia e cercare per la prima volta di essere una persona migliore. Solo a noi spettatori però è concesso di sapere che quella fonte di ispirazione conteneva a sua volta un’altra rinascita: la canzone dei Nasty Bits è infatti la loro nuova versione di “Woman Like You” che sottolinea quanto la lezione (di vita e di musica) datagli da Lester Grimes nello scorso episodio è stata tutt’altro che vana.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 14/04/2016

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