Vertigo: i fantasmi tornano sempre a casa

Ritorno alla vita, ritorno al cinema, ritorno al tempo: intorno a Every Thing Will Be Fine, vertigine in dissolvenza firmata Wim Wenders .

Ritorno alla vita - che qui preferiremo chiamare con il suo titolo originale, Every Thing Will Be Fine - è l’ultimo, vertiginoso tassello wendersiano su ferite, torpori e cicatrici interiori temprate dallo scorrere inesorabile del tempo. Le stagioni si susseguono a velocità disarmanti, volti, corpi e cose svaniscono in un continuo, etereo momento di morte, la vita stessa è inghiottita in dissolvenze che ritagliano ossessivamente l’intero film.

Le immagini, alla stregua di fuochi fatui, sono pronte a sgretolarsi nella mente, a rincasare come spettri nella dimora oscura da cui provengono (lo schermo nero, principio e fine di ogni visione).

Non è un ritorno alla vita quello del personaggio di James Franco, ma un semplice continuare a vivere, sopravvivere a se stessi e ai fantasmi innevati di un istante (quello catastrofico dell’incidente, con il cadavere negato del bambino). Immobile, intorpidito, quasi passivo dinanzi allo scorrere delle cose, il protagonista del film immerge il suo dolore nell’ellissi, nel fuoricampo, in uno spazio, in un tempo, troppo privati per essere rappresentati.

Wim Wenders mette da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza filmica, abbandona il cinema del trucco, dell’invecchiamento progressivo dei personaggi e lascia che questi rimangono sempre uguali a se stessi, senza che gli anni possano scalfire il loro aspetto esteriore. Quello che gli interessa è unicamente il tempo interno del dolore: Every Thing Will Be Fine si trasforma in un film ambientato nella mente del protagonista, in una rappresentazione psichica – mai psicologica – di un uomo che deforma continuamente luoghi e situazioni, verso un’astrazione della forma prima funerea, poi vitalissima. Un altro film-soggettiva. La scrittura, più che sublimazione, diviene qui la ricerca costante di un nuovo sguardo, di un nuovo modo per ghermire, catturare, manipolare il reale.

A ben vedere, Every Thing Will Be Fine non è un film sui sentimenti, ma un film nei sentimenti. Nessuna escatologia, nessuna trascendenza, nessun al di là, ma un sofferto, catatonico al di qua, come a ribadire l’esigenza di un cinema immanente, di un cinema di figure e cadute, di un cinema tenacemente fallimentare perché non ha nulla che lo possa salvare dall’oblio. Ha solo un cuore.

Si pensi alla tenera, stranissima notte che il personaggio di Franco e quello della Gainsburg passano insieme: le luci cambiano all’interno della stessa sequenza, senza alcuna soluzione di continuità. La temperatura colore varia a seconda degli umori, delle sensazioni, delle situazioni, come se la luce non dovesse “ambientare” il set ma, viceversa, fosse rappresentazione visiva di un pensiero, di un impulso (in un certo senso Storaro ha sempre fatto qualcosa di simile: la luce è il cuore instabile del personaggio, il suo stesso moto interno). Wenders scrive pensieri con la luce e usa, stravolge, reinventa codici cinematografici al solo scopo di sentire un sentimento. E’ interessato a una dimensione tattile del ricordo, eppure lascia evaporare le sue immagini in celeri dissolvenze: si desidererebbe ardentemente l’immagine ancora tra noi, ma questa fluttua, sparisce, si nega attraverso uno schermo nero. Ci scopriamo bramosi di catturarla, ma lei finisce per sgretolarsi nel buio, come ogni cosa nel film. La vita, gli amori, i tremori, i rimpianti, sono baluginii che emergono tra uno schermo nero e l’altro, istanti di luce generati dall’oscurità. La storia non sopravvive mai alla dissolvenza, è destinata sempre a tornare allo shock, al trauma indelebile, all’inverno innevato, allo schermo nero. Non è questo il cuore inquieto anche – e soprattutto – dell’ultimo Malick che, abitato da una marea instabile, ritorna sempre alla meraviglia di Mont-Saint-Michel?

Wenders è affascinato dai solchi della memoria, da ciò che si cristallizza nella mente, da quelle idee fisse pronte a distruggerci (o a salvarci). E’ come se l’inverno si fosse insidiato nel cuore del protagonista, congelando ogni emozione, ogni turbamento, ogni gioia e dolore. Il corpo è freddo, la mente è lucida ma distante: tra un pensiero e l’altro l’abisso, il déjà vu, la colpa del giovane corpo inerte. Proprio per questo Every Thing Will Be Fine somiglia così tanto a uno stato d’animo, al moto segreto e inafferrabile di una giostra interiore, quella dei sentimenti. Somiglia alla vita, si potrebbe dire, senza paura di troppa retorica.

Tutto ciò che è stato solido, tutto ciò che ha avuto forma, corpo e volume, è destinato a non essere più, se non come ricordo lontano, spettro ospitato dalla scrittura, aperto a prospettive sempre nuove (un abbraccio che “salva” la vita di un ragazzo solo). Perfino la parola scritta si fa cenere (la Gainsburg che getta nel fuoco un libro di Faulkner perché “scriveva troppo bene”, distogliendola dai figli).

Come suggerisce il gelido, superbo incipit innevato, il mondo è un paese lontano. Tutto il film di Wenders ragiona sulle distanze, non tanto quelle geografiche, ma quelle insite nei rapporti affettivi. Ogni rapporto si reincarna in quello successivo, ritrovando le stesse dinamiche, lo stesso dna, ma una pelle differente: esemplari le due donne di James Franco, distanziate dal tempo, poste lì ai margini della storia e delle immagini, bisognose d’amore da un uomo che non ha altro se non il suo inverno.

Come To The Wonder.

Nel ponte ideale che collega i due film, i corpi si toccano senza mai sentirsi veramente, ma con una smania di provare, capire, sentire, comprendere l’altro. Di coglierne intatta tutta la meraviglia. Se la struttura di Every Thing Will Be Fine è il movimento-voragine, quella di To The Wonder è, innegabilmente, la marea. Ritrarsi, avvicinarsi, allontanarsi, espandersi forse. Infine perdersi. Esistenze che svaniscono, si dissolvono sullo schermo, brillano in un mare d’immagini. Lasciano che il tempo sia. Come delle sinfonie al crepuscolo, come dei nuovi Rohmer pronti a raccontare il placido scorrere delle stagioni del cuore. Entrambi i registi aprono varchi di luce in fondo ai tunnel. Nei loro ultimi film ogni uomo può essere un altro uomo, ogni esistenza è sostituibile: in fondo To The Wonder e Every Thing Will Be Fine sono pezzi, ritagli, istanti di un uomo e di due o tre donne, archetipi svuotati di qualsiasi facile psicologismo, di qualsiasi studio, di qualsiasi teoria più o meno consolidata. Sono interessati solo alla vita (e in questo “solo” sta tutto il senso chenotico della loro ultima produzione: spogliare il film, farlo mancare a se stesso, indagarne le figure, il loro incedere, il loro frapporsi, il loro allontanarsi).

Collante di entrambe le opere, il personaggio di Rachel McAdams. Sia qui che in To The Wonder la sua figura svanisce dal/nel film, obnubila la sua stessa immagine, viene sostituita da qualcos’altro. Lei stessa è un frammento, un momento di passaggio, qualcosa che improvvisamente viene inghiottito dalla voragine. Nel film di Wenders c’è spazio per un ritorno, ma è solo un istante, appena una comparsa dal mondo dei morti, subito pronta a tornare nell’oblio.Non sappiamo quando, come e perché sia sparita, possiamo solo immaginarlo, ricostruendo i vuoti filmici, cercando in quell’assenza le ragioni che le immagini possono solo suggerire.

Il fatto è che non c’è più spazio per un climax, per un momento di rottura, ma solo per premonizioni e conseguenze, per prima e dopo. Ciò che manca è la visibilità dell’evento, il suo pathos, la sua carne, il suo stesso twist narrativo. Every Thing Will Be Fine e To The Wonder sembrano dirci che la catastrofe non è mai ora, ma sta sempre per avvenire e, insieme, è già stata. Il presente è un ricordo evanescente, ma anche un domani, un già stato che sarà di nuovo. Un déjà vu: pensiamo alla Gainsburg che, al rumore di un’automobile che si avvicina alla casa, corre verso l’unico figlio rimasto. Sensazioni di un passato che è sempre in procinto di tornare.

Se la catastrofe del film è la morte di un bambino investito dalla macchina del protagonista, Wenders non è interessato al cadavere in sé ma alla premonizione di quel cadavere. Del resto l’effetto vertigo, prelevato direttamente dall’immaginario hitchockiano, è l’indice di un allontanarsi avvicinandosi, di un ossimoro, di una coesistenza impossibile: inconscio di aver investito il bambino, Franco si avvicina alla casa della madre e, all’improvviso, assistiamo a questa distorsione ottica. La casa si ritrae e, contemporaneamente, ci viene incontro. Subito associamo la vertigine alla premonizione, al sentire la tragedia imminente (e già avvenuta): un incrocio di tempi, un momento profetico, una voragine. Avviene anche nella sequenza del luna-park, tutta costruita secondo i dettami più classici della suspense: anche qui, l’effetto-vertigo è un sentire il pericolo, percepire l’evento, cogliere la catastrofe. Del resto, il vertigo viene applicato anche alle relazioni umane: essere insieme ma distanti anni luce.

Profondità schiacciate, vertigini inverate, movimenti contraddittori. Come nel cinema di Malick che continua a ribadire l’assenza proprio nella presenza, la lontananza dal mondo proprio quando è nel mondo (la meraviglia in un supermercato).

Ogni immagine di Every Thing Will Be Fine si fa proiezione mentale, soggettiva, gioco di specchi in cui Wenders vede continuamente se stesso. Emerge allora la dolente consapevolezza di una perdita, che non è solo l’elaborazione del lutto, ma una vera e propria spossatezza esistenziale. Tempi e luoghi s’iscrivono all’interno dello stesso personaggio di Franco, conducendolo verso un’anaffettività, un torpore, un’indifferenza sempre più radicali. E’ un corpo pesante, imbalsamato, immobile e curvo, vittima di un lungo sonno iniziato una mattina innevata. Come risvegliarsi? Come destarsi dal torpore? Come ritornare a sentire il mondo? Come tremare, affannarsi, gioire, come vivere ancora? Come sostenere gli occhi di chi guarda?

Cos’è, del resto, il finale del film se non l’istante del risveglio? Franco si fa definitivo alter-ego di Wenders che finalmente può riappropriarsi del proprio sguardo. Può guardarci direttamente, non più come in uno specchio: necessario, inevitabile, ecco lo sguardo in macchina. Sguardo che è una fuoriuscita, una collisione, una rottura, un travolgerci stesso del cinema. E se tutto Every Thing Will Be Fine si trova in uno stato di dormiveglia, in una latenza che dura anni, il finale non può che rappresentare una nuova vita, un nuovo sguardo, una nuova soggettiva.

L’inverno è finito. Faccia a faccia, oltre ogni narrazione possibile, James Franco ci guarda e ritorna finalmente a vedere. Da un’altra parte, una donna sussurra parole al vento, canta le sue lodi all’aria, lecca una goccia di rugiada, finché un ricordo lontano illumina il suo sguardo: alla meraviglia.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 06/10/2015

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