The Woman

Un trattato lucido e caustico sulle aberrazioni della società civile e della famiglia, sullo sfondo del conflitto fra natura e cultura

Trasposizione filmica del terzo capitolo letterario delle Dead River Series, cupe novelle di morte partorite dalla fertile e malata fantasia di Jack Ketchum, The Woman si giova della presenza del talentuoso Lucky McKee dietro la mdp, ma anche coautore dello script accanto a Jack Ketchum, che appare in veste di sceneggiatore, così come aveva fatto con la trasposizione del secondo capitolo della serie, Offspring (2009), firmato alla regia da Andrew van den Houten. Con The Woman, van den Houten passa saggiamente la mano a McKee per la regia, ritagliandosi il ruolo di produttore. Se, da un lato, The Woman costituisce l’ideale prosecuzione delle vicende narrate in Offspring, dall’altro, si configura come uno dei tasselli filmici più importanti – accanto sicuramente a La ragazza della porta accanto di Gregory M. Wilson (2004), prodotto dall’onnipresente van den Houten – nel tradurre in immagini la densità tagliente, umbratile e perturbante della prosa, dell’orizzonte diegetico e dei personaggi ketchumiani. Questo è uno dei meriti più evidenti del lavoro di McKee, un merito che forse era mancato a quello firmato due anni prima da van den Houten, e cioè la capacità di estroflettere, di portare allo scoperto, di mettere letteralmente a nudo non solo la violenza eccessiva dell’immaginario di Ketchum, ma anche i suoi fantasmi, le sue ossessioni più profonde e disturbanti, senza indulgenze o compiacimenti di sorta. A far da perno a pressoché tutti gli snodi narrativi e tematici del film è, ancora una volta, l’idiosincrasia ketchumiana per la famiglia tradizionale americana: quella bianca, wasp, benestante, reazionaria, retrograda, beghina, repressa, maschilista, razzista e inquietantemente malsana, per intendersi; l’aberrante dimensione domestica altoborghese, tratteggiata da McKee e Ketchum, risulta poi doppiamente riprovevole e repulsiva, in quanto (mal)celata dalla patina del perbenismo ipocrita, della condotta solo esternamente irreprensibile, di un codice comportamentale solo formalmente retto e probo, di una pulizia morale esclusivamente di facciata, che risultano però incapaci, alla lunga, di nasconderne gli afrori malsani e le nefandezze.

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La narrazione segue le vicende della famiglia Cleek e dei cinque membri che la compongono: Chris (Sean Bridgers), avvocato di successo, Belle (Angela Bettis), la devota moglie e madre di famiglia, e i tre rampolli Brian (Zach Rand), l’ometto di casa che segue mimeticamente le orme paterne, Peggy (Lauren Ashley Carter), l’adolescente con i primi naturali turbamenti dell’età inquieta, Darlin’ (Shyla Molhusen), la ragazzina in erba perennemente sorridente e curiosa. Il contraltare a tale idillico quadretto è costituito da una donna (Pollyanna McIntosh), una strana donna, sporca, lacera, affamata, più simile a una belva che a un essere umano, che vaga per i boschi circostanti in cerca di cibo e riparo dagli (altri) animali feroci. Ella, seguendo le vicende narrate in Offspring, risulterebbe l’ultima sopravvissuta di una stirpe di esseri selvatici e cannibali – sulla scia di film seminali, probabilmente anche per Ketchum, come Non aprite quella porta di Hooper e Le colline hanno gli occhi di Craven – anche se, nel film di McKee, ogni chiarimento in tal senso è assente. È dedicata tutta a lei la sequenza d’apertura, girata da McKee con colori opachi e col prevalere del buio o dell’ombra, nel contesto di un’ambientazione boschiva selvaggia e priva di tracce antropiche. La sequenza successiva conduce subito all’altra faccia della medaglia, il consesso civile – la cui effettiva “civiltà” verrà chiarita più avanti – rappresentato da un coloratissimo e fatuo barbecue-party, che vede protagonisti i Cleek con altre famiglie della zona. Questi due mondi tratteggiati, da subito, come sideralmente distanti – i contrasti cromatici e ambientali, la collettività imborghesita, spensierata, comoda e ciarliera contrapposta alla barbarica e primordiale vita errabonda dell’essere umano inselvatichito e bestiale, il sovrabbondare del cibo (gli onnipresenti hamburger) contrapposto alla tenace e ferina ricerca di nutrimento e rifugio – finiranno con l’incontrarsi quando Chris Cleek, l’uomo stanziale e progredito, quindi cacciatore per diletto al di fuori del proprio ambiente d’appartenenza, sconfinerà nel territorio della donna selvaggia, cacciatrice per necessità, per fare di lei la sua preda. La donna, secondo i suoi intenti, dovrebbe diventare una specie di trofeo di caccia “vivente” da esibire alla propria famiglia e, soprattutto, da rieducare secondo le buone maniere del vivere progredito. Basterebbe già tutto questo per prendere decisamente le distanze da Chris e dalla sua presuntuosa sicumera da uomo bianco ed evoluto, a cui non è più sufficiente l’orizzonte del proprio mondo, chiarissima metafora del colonialismo/imperialismo delle cosiddette società civilizzate, nei confronti di chi non si conforma al loro modello. Eppure vi è molto di più e di peggio, anche se questo “peggio” non è altro che il corollario inevitabile dell’attitudine complessiva di sentirsi collocati, per natura, attitudine e meriti innati, dalla parte del bene, del giusto e del bello, tanto da doverli imporre anche a tutti coloro i quali non ne godono i benefici, i privilegi e le fortune. E qui verrebbe da chiedersi se siano gli uomini come Chris la causa del disfacimento del nostro mondo o se, piuttosto, non sia tale disfacimento a partorire esseri degradati come lui. Lasciamo inevasa la questione e proseguiamo.

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Chris è solo in superficie integrato, umanamente e professionalmente, nella società in cui risiede: buon padre di famiglia, premuroso e severo, marito disciplinato, amante dei cani di grossa taglia, al cui nutrimento è adibita la prole, nonché lavoratore efficiente e carismatico, con addirittura alcuni tratti di umana empatia verso il suo prossimo. In realtà, come accadeva anche alla Ruth Chandler de La ragazza della porta accanto, ogni tratto positivo costituisce invece il sintomo di una deriva psichica irreversibile. La premura verso i figli è posticcia, la severità è autentica solo nei confronti delle donne di casa, che egli, da misogino latente e da deviato sessuale qual è, non tarderà a soggiogare, anche in modo violento, mentre, nei confronti dell’erede maschio Brian, dimostra l’indulgenza di chi rimira la propria immagine allo specchio, un’immagine solo ringiovanita di qualche anno, ma già pronta a seguire le orme della propria matrice. Anche al lavoro – si tratta più che altro di un vago cenno a maneggi finanziari legati al crollo dei mutui sub-prime – la sua condotta è tutt’altro che irreprensibile. La vera mostruosità di Chris emerge però una volta trascinata a casa la sua preda umana, la Donna, e una volta intravista la possibilità di poter godere dei privilegi del padrone estesi al di là di quelli, più contenuti e frenati, intrattenuti nel contesto domestico, dato che, nel caso della Donna, la vittima ha i tratti e i comportamenti dell’animale. Lungi dal voler solamente educare ed acculturare la propria cavia (come avveniva con intenzioni e modi assai diversi, ma ugualmente arroganti e protervi, nel caso, ad esempio, del dottor Itard ne Il ragazzo selvaggio di Truffaut, o nel caso del dottor Daumer ne L’enigma di Kaspar Hauser di Herzog), Chris vuole sadianamente farne la propria schiava, l’ennesima femmina sottomessa della famiglia e in più lo sfogo muto (la Donna emette suoni gracchianti e bestiali, ma non parla, salvo qualche parola bofonchiata e incomprensibile, oltre a risultare assai attraente, una volta ripulita dalla sporcizia) dei suoi repressi istinti di uomo monogamo: a tal proposito, risulta memorabile ed emblematica la sequenza in cui la Donna gli tronca con un morso l’anulare, sputandogli poi in faccia la fede nuziale. Per Chris, le donne sono puri oggetti da sottomettere, attraverso l’obliterazione della loro volontà. Nel finale, in soprammercato, si scoprirà anche che il pater familias Chris Cleek, col colpevole silenzio-assenso della famiglia totalmente asservita, nasconde, all’interno del recinto dei suoi cani, un’altra cavia dalle fattezze vagamente femminili, Socket (in italiano, orbita/cavità, cinico gioco di parole con cui viene designato, nel contesto, un essere privo della vista) – interpretata da Alexa Marcigliano – ridotta allo stato bestiale, trattata peggio dei cani stessi e di cui null’altro viene riferito esplicitamente all’interno del film.

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Se Chris è uno psicopatico pericoloso e Brian uno specchio fedele del degenerato padre, non è che la madre di famiglia Belle eccella nel contesto, anche senza avere torti attivi. La passività è una colpa, se consente ai tiranni di prosperare – lo insegnava già la figura di David Moran l’adolescente protagonista de La ragazza della porta accanto – e la remissività un crimine, se a causa sua vengono compiuti misfatti innominabili. Tanto più che l’unica preoccupazione di Belle, una volta che il marito giungerà a casa con la Donna, sarà il timore di perdere quel po’ di dignità nominale che il suo ruolo familiare ancora la illudeva di avere, non il nocumento per un altro essere umano, non il senso di colpa o la pietà e nemmeno più di tanto la gelosia. Diverso è il discorso per le due ragazze, Peggy e Darlin’, in quanto non sufficientemente forti o cresciute per imporsi. In più il progredire del racconto, pur non chiarendo le effettive dinamiche dei fatti, fa trapelare chiaramente l’idea che Peggy sia incinta, con tutte le problematiche che già ne conseguirebbero, ventilando anche l’ipotesi, mai chiarita definitivamente, che il nascituro possa essere il frutto di uno stupro da parte del padre.

Il quadro che ne emerge, in qualsiasi modo lo si rigiri, e come da sempre ci ha abituati la scrittura sanamente velenosa di Ketchum, scava nel marcio che affiora dai tessuti solo apparentemente sani delle istituzioni su cui si fonda la società americana, per affermare decisamente che, comunque sia, nessuno è del tutto puro o incontaminato e che, se vi sono ancora delle isole di innocenza, esse verranno presto o tardi colonizzate e distrutte. Certamente, non tutti sono responsabili allo stesso modo e, in questo caso, la colpa originaria si situa in chi detiene il potere all’interno di quella cellula primaria della comunità che è la famiglia.

La misoginia al femminile di Ruth Chandler, presente ne La ragazza della porta accanto con tutto il suo carico di repressione sessuale, si trasforma in The Woman in una misoginia altrettanto aberrante e tutta al maschile, nella quale risulta difficile attribuire la palma di villain a Chris o al figlio Brian, ripugnante come il padre, se non di più. Non si tratta però soltanto di un conflitto fra maschile e femminile, emblematica sineddoche, infatti, di quello più vasto e altrettanto totalizzante fra natura e cultura. Se nella società civilizzata comanda il maschio, capofamiglia effettivo o pronto a diventarlo, il quale impone la propria cultura, cioè la propria visione (spesso distorta) del mondo, acquisita durante secoli di egemonia socio-antropologica sulla controparte femminile, in natura il ruolo centrale è della femmina, la continuatrice della specie, la madre protettrice della propria prole – emblematica, al riguardo, la sequenza semi-onirica all’inizio del film, in cui la Donna osserva un bambino, che viene leccato e accudito da un lupo (una lupa?), in una simbiosi totale fra umano e animale, fra uomo e natura – e quindi l’unico essere umano che, nella natura, trova il proprio habitat, la propria dimora, la propria dimensione esistenziale è la donna.

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Non è un caso che, nell’ordalia finale, la Donna faccia carne da macello dei due maschi, padre e figlio, nonché di Belle, la femmina adulta, che però aveva rinunciato al proprio ruolo attivo e quindi alla propria natura, così come non è un caso che ella risparmi le due ragazze di casa Cleek, Peggy e Darlin’, la prima perché incinta e la seconda perché non ancora del tutto contaminata dalla civiltà, in quanto non adulta. Così come non è un caso che sia proprio Peggy, scopertasi incinta, e poi impaurita dal padre-orco e dal fratello psicotico ormai fuori controllo, a liberare la donna incatenata e a lasciarle il campo per ristabilire l’equilibrio minacciato dai due maschi. La sequenza finale mostra che una nuova e strana famiglia è nata, tutta al femminile, e la Donna può tornarsene alla propria foresta non più sola, bensì accompagnata da Socket, di fatto una “sorella di sangue”, dalla piccola Darlin’, l’unica che aveva mostrato affettuosa curiosità verso di lei durante la prigionia, e, più in distanza, dalla solitaria Peggy, incompresa nel proprio mondo e, forse, necessitata a cercarne uno nuovo.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 02/10/2015

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