The Deuce – La via del sesso

Dietro gli sfolgoranti dettagli della golden era del porno commerciale americano, la nuova serie di Simon e Pelecanos continua a cercare “il filo” di sempre: quello del potere e delle sue aberrazioni.

Se ci si fermasse al titolo italiano e a qualche sommaria stuzzicheria sull’ultima serie HBO trasmessa da noi su Sky Atlantic, The Deuce – La via del sesso, si immaginerebbe forse un racconto incentrato sulla legalizzazione e lo sviluppo dell’industria pornografica americana nei primi anni Settanta. A dissipare il rischio di prendere un abbaglio così pericolosamente riduttivo e fuorviante basterebbero, però, i nomi e le personalità dei due autori, produttori e sceneggiatori: David Simon e George Pelecanos, il formidabile duo dietro la storica TheWire, prodotto HBO tra i più importanti di tutti i tempi. Ma affinché lo spettatore possa comprendere fino in fondo a cosa va incontro è fondamentale capire brevemente il background dei due showrunner.

Simon viene dal mondo del giornalismo, cui si avvicinò sull’onda di una fascinazione idealistica per i servizi del Washington Post riguardanti lo scandalo del Watergate, persuaso in questa fase della sua vita che il cronista possa incidere realmente sulla società. Una convinzione sgretolatasi man mano che, attraverso la lente della cronaca nera e del racconto-verità sulla criminalità dei grandi centri urbani (nello specifico, Baltimora, la sua città), sugli omicidi e sul mercato della droga, Simon inizia a comprendere appieno l’influenza della società sul singolo individuo, e a vedere con chiarezza le logiche di potere e le implicazioni socio-economiche a monte dei reati. Da qui lascia la scrittura giornalistica per dedicarsi a tempo pieno alla quality tv.

Dall’altro lato, lo scrittore di origini greche Pelecanos, prima di veder realizzate le sue ambizioni letterarie, è stato il ragazzo delle consegne per il diner di famiglia, un piccolo ristorante aperto da colazione a cena con una brigata di cucina fatta di uomini e donne di colore che ascoltavano gospel e soul alla radio, mentre una linea immaginaria divideva clienti di ogni estrazione sociale tra bianchi e afro-greco-americani. Un adolescente che sognava di diventare scrittore mentre andava a lavoro prima dell’alba, guidando una Camaro dorata, fumando una Marlboro alla menta e ascoltando Curtis Mayfield o Al Green. Barista, cuoco, venditore di scarpe ed elettrodomestici.

Un immaginario, quello fatto di lavori duri, di strada, muscle cars, diner, luci al neon, strade insudiciate e umanità brulicante, che trova ampio spazio in questa nuova creazione, affrontato da una prospettiva che oltre ad essere fortemente calata nella realtà potremmo definire, tornando a Simon, materialistica o persino marxista (e non è un azzardo se si pensa che in uno dei momenti più divertente della serie uno dei lenoni parla chiaramente di «oppressione gerarchica» e di «detenzione dei mezzi di produzione»), dal momento che vede l’egemonia delle forze produttive sulle coscienze individuali. È con questo sguardo, al contempo realisticamente dettagliato e sociologico, che vengono raccontate le tante microstorie, basate su fatti reali, che compongono il più ampio tessuto narrativo di The Deuce.

Storie di papponi, prostitute, barman, guardoni, maniaci ipersessuali, drogati, spacciatori, poliziotti corrotti e balordi di ogni tipo che si incrociano, nei primissimi anni Settanta, a pochi passi da Times Square, sulla quarantaduesima strada di Manhattan, rinominata dai neyworkesi the deuce, per l’appunto. Un’arteria stradale capace di per sé di generare ed evocare un intero immaginario, a partire dal mondo dei teatri e dello spettacolo di Broadway, reso immortale dal celebre musical omonimo con le coreografie di Busby Berkeley, per finire alle grindhouse, le sale in cui scorrono ininterrottamente film d’exploitation (magistralmente descritte nel libro Sleazoid Express). Una via dove, diceva una canzone ad essa dedicata, «il sottobosco può incontrare l’elite». Prima, ovviamente, che questa fosse svuotata e ripulita dai malfamati percorritori abituali con l’avvento dell’home video, della gentrificazione e poi dell’hipsterismo.

Storie legate tra loro dal filo rosso dello sfruttamento commerciale delle pulsioni sessuali, del voyeurismo, del desiderio maschile allora imperante. E certamente la narrazione segue le verosimili vicende di personaggi la cui vita è in qualche modo legata – o lo diventa – al business del sesso, della prostituzione, della scopofilia, con al centro la figura del protettore, il pimp. Ma questo substrato sociale, umano, e l’ambientazione urbana, così come il quadro storico e politico (vengono citati Nixon, la “teoria del pazzo”, la vietnamizzazione e la politica di distensione, la controcultura e la rivoluzione sessuale, Angela Davis e il movimento per i diritti degli afroamericani, Abbie Hoffman e la ribellione giovanile), non sono che manifestazioni, epifenomeni delle lotte di potere che David Simon e George Pelecanos vogliono smascherare.

Così come The Wire era soltanto in apparenza un telefilm poliziesco sulle guerre per il controllo del mercato della droga a Baltimora, ed era in realtà molto più interessato alle modalità con cui le dinamiche di potere si intrecciavano inevitabilmente alle questioni socio-economiche delle classi subalterne – la povertà, l’indotto del commercio della droga e le gerarchie criminali, l’influenza delle istituzioni sui cittadini e sui loro compromessi – così The Deuce è relativamente interessata all’avanzata del porno chic nei primi anni Settanta, l’età dell’oro della pornografia commerciale che sancisce la fine della clandestinità degli stag movie da peepshow con l’uscita del Blue Movie di Warhol (1969) e la consacrazione dettata dal successo di classici degli X-rated come Gola profonda (1971) – che non a caso chiude la prima stagione –, Behind the Green Door (1972) e The Devil in Miss Jones (1973).

Lo è, almeno, nei termini in cui la crescente speculazione sul sesso, attraverso sistemi più elaborati di sfruttamento della prostituzione e di spettacolarizzazione audiovisiva di massa, resi possibili da quella temperie, in quel determinato contesto sociale e urbano, diventa un’occasione per parlare di come le dinamiche del desiderio vengano sempre strumentalizzate e capitalizzate da poteri forti: la criminalità organizzata, l’industria e l’estabilishment, con tutte le loro ibridazioni e connivenze.

Le vicende dei fratelli gemelli Vincent e Frankie Martino (interpretati entrambi da un ottimo James Franco), dei lenoni e delle loro donne da marciapiede, o di Candy, la squillo fieramente indipendente e irresistibilmente sexy interpretata in maniera sbalorditiva da una Maggie Gyllenhaal capace di caricare elettricamente ogni scena in cui appare, non sono dunque che nervature, dal potenziale narrativo chiaramente esplosivo, di un apparato che tutto muove e dispone. Sono, per usare il lessico marxista, la forza lavoro di un sistema produttivo che è il vero motore di tutto e che rende il racconto infinitamente più interessante, folgorante, universale.

Si pensi a come la mafia italo-americana riesca a produrre interessi sui debiti che Frankie accumula a causa del suo vizietto per il gioco d’azzardo (una forma di capitalizzazione che non può non ricordare l’anatocismo bancario) e come questo impatterà sulla vita di suo fratello e del cognato. Oppure alle decisioni dei piani alti di politica e polizia, che svuotano la deuce dalle passeggiatrici per portarle nei nascenti “centri massaggi” e permettere così a loro e ai mafiosi di lucrare allo stesso tempo sui papponi, detentori della materia prima che ora può fruttare solo al chiuso, e sui clienti, non più costretti ad ingaggiare le ragazze per strada e disposti a pagare qualcosina in più per un servizio migliore.

È questo a solleticare maggiormente la ricerca artistica di Simon e Pelecanos: le storture, le ingiustizie sociali determinate dallo spirito capitalistico americano. Non è un caso che in una delle scene chiave della serie, Candy condensi questa apoteosi yankee del neo-liberismo con una frase emblematica: «It’s America, right? When do we ever leave a fuckin’ dollar for the other guy to pick up?». Una verve tutta tesa alla competizione e al dominio del più forte che si traduce nelle disparità tra Paesi, tra ricchi e poveri, uomini e donne. La metropoli americana, nello specifico la Manhattan della quarantaduesima strada dei primi anni Settanta, all’alba del boom commerciale della pornografia per le masse, è un perfetto ecosistema della brutalità capitalistica, una “cucina del diavolo” (per riprendere il nome iconico di un quartiere attiguo, fucina del male che funesta il mondo di Daredevil, per esempio) dove a saltare per aria è sempre il più debole.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 29/11/2017

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