The Assassin

A otto anni dal suo ultimo lavoro, Hou ritorna con un wuxia dell’animo di incredibile libertà e potenza cinematografica

Presentato nel concorso principale del festival di Cannes di quest’anno, The Assassin ha segnato il ritorno di Hou Hsiao-Hsien al grande schermo dopo otto anni dall’ultimo lavoro, Le voyage du ballon rouge. L’autore di Taiwan gioca su terreni nuovi: impegnativa coproduzione che coinvolge in modo importante anche la Cina continentale, The Assassin è un wuxia (cinema di cappa e spada cinese) del tutto atipico, quasi senza azione e attraversato da fortissime emozioni silenziose. The Assassin non cerca i facili eroismi e scariche di adrenalina: siamo piuttosto nell’ambito dell’elegia e della poesia visiva, vero terreno di incontro tra Hou e le radici profonde e originali del cinema e della letteratura wuxia.

La storia è ambientata nella Cina del nono secolo. Nie Yinniang (Shu Qi) è un’assassina addestrata ad uccidere nobili e tiranni dietro ordine dell’imperatore. Dopo molti anni di esilio, la donna torna dalla propria famiglia con la missione segreta di uccidere il cugino, governatore di una provincia ribelle. Nonostante la disciplina e la risolutezza, l’assassina deve combattere una dura battaglia interiore tra la ragion politica e la propria umanità.

Fin dai primi minuti, Hou rende chiara l’operazione di distanziamento dal canone del genere di riferimento: un bianco e nero abbacinante e un montaggio ridotto all’essenziale raccontano il prologo alla storia riflettendo, al contempo, le inquietudini della protagonista. Disciplinata e repressa, Nie Yinniang è una forza della natura piegata al volere dei padroni. L’enigmatica assassina sta all’impero delle stoffe e delle rigide forme come il film stesso sta al suo genere di appartenenza. In seguito, The Assassin prosegue con coerenza il suo lavoro di decostruzione: cadono le grandi narrazioni politiche e i discorsi retorici dei sovrani, cadono le parabole epico-patriottiche e i falsi, ipocriti tentativi di attualizzare la storia imperiale della Cina e di trasformarla in comodo libretto rosso od opuscolo per guidare il presente: Hou non è Zhang Yimou, né un regista interessato a sfruttare il wuxia in ottica di fracking cinematografico. I rimandi formali, gli inviti e i giochi politici di corte restano oscuri e misterici: non è lì che The Assassin vuole trovare il proprio senso. Il cuore pulsante del film sta negli uomini che ancora popolano i corridoi e le sale del potere, nascosti dietro i riti e le rigide gerarchie, dietro i tamburi inesorabili e le ombre del sospetto. Nie Yinniang si muove tra questi due piani, consumando un’intima e dolorosissima battaglia tra responsabilità e ideali incompatibili, tra ragioni del cuore e ragion politica. Battaglia che non possiamo che intravedere, men che mai “dominare” pienamente. Tra le pieghe di questa narrazione intermittente, Hou rinuncia di nuovo alla prosa, scegliendo la poesia del cinema.

Nello scontro tra centro imperiale e periferia “ribelle”, tra l’unico cielo e l’attestazione di una maggiore e sincera complessità dell’uomo e delle ragioni, Hou ha qualcosa da dire sulla propria storia e sul tratto di Storia che la sua vita ha attraversato. Forse è troppo facile leggere, in un’opera così ricca di suggestioni, una metafora politica della relazione tra Cina e Taiwan, ma si tratta di una prospettiva che è comunque impossibile ignorare. Ciò che è più importante, tuttavia, è che The Assassin libera il wuxia contemporaneo dalla sindrome di inferiorità nei confronti di generi ormai decisamente più affini al centro, come l’action hongkongese (che ormai, come è noto, si è trasferito ad Hollywood) e il cinema storico in senso più stretto. Il wuxia puro non è (solo) cinema storico; è cinema mitico e astratto. Non è solo girandola dello sguardo e degli effetti speciali, come in Tsui Hark, né compromesso storico tra filologia marziale e altri generi cinematografici dominanti, come nel cinema di Xu Haofeng; Hou è interessato alla radice profonda dell’eroe errante, al Touch of Zen di King Hu (film prodotto e girato a Taiwan, peraltro) e alla sua eroina, Yang: un’eroina che è sempre, comunque un essere umano. Una donna che cerca di mantenere la propria integrità in un mondo spietato, disposto a tutto pur di strappargliela e trasformarla in docile suddito. Cambia, naturalmente, il contesto: non c’è spirito o liberazione della carne in Hou, e le foreste non sono più attraversate da forze misteriose. Resta il respiro mitico della storia, ma si tratta di un mito molto particolare, tutto giocato dentro la dimensione dell’umano.

Come tutti i miti, The Assassin non ha bisogno di contenuti chiari e distinti: il mito è l’algoritmo generativo delle storie, la matrice che li struttura. La visione è pensiero; i lunghi piani, gli sguardi fugaci e le fulminee esplosioni di coreografia marziale sono frammenti di un discorso sull’uomo che è refrattario alle riduzioni logiche, all’unità narrativa e logica. Tuttavia, a differenza dei miti classici, The Assassin non vuole spiegare o costruire un mondo irriducibilmente singolare, quanto testimoniare l’esistenza di una complessità: è un contro-mito, deflagrato, oggetto paranarrativo che rifiuta il punto di vista univoco, onnisciente e unificante, preferendo le ellissi e i punti di fuga. Il narratore onnisciente è improponibile per Hou: è pericolosamente vicino al re, alla riduzione all’Uno che è l’ombra su cui l’identità taiwanese (e di tutti i poteri minori, sconfitti dalla Storia) deve posarsi. La narrazione si fa, dunque, necessariamente “sperimentale” e frammentaria, per una questione etica e di onestà. Frammento di irriducibile, incompleta bellezza. Incompleto, aperto: impossibile da neutralizzare.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 21/12/2015

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