Stranger Things / Per continuare a credere nella necessita' della meraviglia

Tra mimesi nostalgica e grande storytelling, Netflix e i fratelli Duffer ci regalano un viaggio che ha molto da dirci sul ruolo della serialità televisiva e sul suo modo di raccontare storie.

In principio Stranger Things era solo il trailer di una serie Netflix con Winona Ryder ambientata negli anni Ottanta. A pochissimi giorni dal rilascio internazionale è invece montato un hype collettivo di dimensioni spropositate, un’attesa che ha fatto del weekend tra il 15 e il 17 luglio un’occasione di reclusione autoimposta per gli appassionati di serie TV e cinema, i quali hanno scambiato le proprie case per dei bunker antiatomici e non si sono scollati dai loro schermi se non dopo aver terminato la visione della serie. Dopo neanche una settimana dal rilascio il risultato è che Stranger Things è diventato un piccolo culto, un gioiello televisivo ad oggi più unico che raro, oltre che l’oggetto di discussione e scrittura compulsiva da parte di tutti quelli che, dopo un entusiasmante binge watching, hanno sentito l’immediato e irresistibile bisogno di verbalizzare e mettere nero su bianco le emozioni e le riflessioni che la visione di questa serie ha prodotto.

I fratelli Duffer sono autori pienamente incardinati nel proprio tempo, trentenni che gli anni Ottanta li hanno intercettati solo con la fantasia, come un passato mai vissuto ed esperito esclusivamente attraverso l’immaginario cinematografico. In questo tempo, nel 2016, i Duffer mettono in scena un’operazione di mimesi estrema, che tanto ha da dirci sul ruolo della serialità televisiva e sul suo modo di raccontare storie.

All’ormai arcinota questione del tuffo negli anni Ottanta va aggiunto un particolare di non poco conto: una cosa è realizzare un film che riprende quelle atmosfere, che cita con nostalgia quel cinema e tutto ciò che ha comportato per spettatori e autori (come ha fatto J.J. Abrams con Super 8), tutt’altra invece è realizzare una serie televisiva che (per ora) consta di una stagione da otto episodi. Un lavoro del genere permette di operare una rielaborazione di quell’immaginario con tutt’altra capillarità, non solo dal punto di vista dei personaggi, ma anche e forse soprattutto da quello dell’estensione narrativa, che in questo caso può abbracciare uno spazio diegetico di gran lunga più ampio.

I Duffer Brothers – così si firmano nei credits – hanno in questo modo la possibilità di concentrarsi a più riprese su diverse linee narrative, e di fare del loro racconto a episodi una genealogia delle tante storie originarie degli eighties che per la prima volta trovano qui un’adeguata sistematizzazione.

Una rilevanza speciale è attribuita alle difficoltà più o meno quotidiane legate all’adolescenza, a quelle storie che fondono le avventure sentimentali con la scoperta individuale, di se stessi e del mondo. Da E.T. a Stand By Me passando per i Goonies (ma prima ancora l’Huckleberry Finn di Mark Twain), c’è sempre quell’America di provincia popolata da giovani alle prese con il loro personale passaggio all’età adulta, con la scoperta del sesso, della violenza e della morte, così come con l’incontro/scontro con la diversità e con le (spesso incomprensibili) costruzioni sociali.

Grazie alle potenzialità narrative di questo formato anche un personaggio come Nancy, che in altri casi sarebbe stato estremamente marginale, acquista uno spessore considerevole, diventando l’occasione per un discorso sui tropi narrativi decisamente originale.

Come sottolinea Kat Rosenfield su Vulture, il triangolo tra Nancy, Steve e Jonathan sovverte i tradizionali canoni secondo cui questo tipo di storia è sempre stata raccontata: il cosiddetto duchebag boyfriend non è più la macchietta arrogante che alla fine viene sconfitta lasciando campo libero all’outsider, ma acquista una corporeità ben più stratificata. In Stranger Things, infatti, tutti e tre i personaggi sono approfonditi come mai prima, dando sia la possibilità a Jonathan di diventare il complice e compagno d’avventura di Nancy, sia l’occasione a Steve per riscattarsi e riconquistare la donna amata, una redenzione simboleggiata alla perfezione dalla cancellazione della scritta “Nancy the Slut”. La compresenza di due figure maschili di eguale peso dona una maggiore tridimensionalità anche al personaggio di Nancy, il cui sviluppo è ben più complesso rispetto ai tropi tradizionali e le permette, in maniera decisamente originale, di acquistare consapevolezza tramite l’avventura, arrivando alla fine della serie a scegliere con cognizione quale dei due (giovani) uomini avere accanto.

In molti hanno detto – giustamente – che uno dei principali riferimenti di Stranger Things è E.T., considerate anche le numerose citazioni del film di Steven Spielberg contenute nella serie dei Duffer Brothers. Di cosa parlano i due autori? In che modo il film del 1982 è essenziale al loro discorso? A ben vedere c’è un movimento di va’ e vieni estremamente particolare, che parte dal rimando diretto alla storia di Elliot e del piccolo extraterrestre e si sposta verso un discorso in parte indipendente e di stringente attualità, prima di tornare nuovamente al riferimento di partenza che, così facendo, dà senso all’operazione.

Non si tratta tanto di citazioni o di omaggi, Eleven a tutti gli effetti è E.T., così come il rapporto tra Mike e la giovane ragazza si posiziona sui binari di una similarità senza sbavature, con tanto di situazioni che sembrano estratte dal film e trasportate nella serie. C’è il riconoscimento reciproco, c’è l’alfabetizzazione, c’è il travestimento come forma di accettazione sociale, c’è la sequenza della televisione e quella dell’alieno che cammina per la casa alle spalle della famiglia.

Da qui però le strade iniziano a separarsi a causa soprattutto delle specificità di Eleven: non siamo più di fronte a un alieno tradizionale, non c’è una figura che si distingue per la sua totale alterità, ma quelle caratteristiche si ritrovano in una giovane ragazza androgina traumatizzata, con evidenti difficoltà relazionali e aliena in un mondo che non sa interpretare. La maggiore prossimità tra Eleven e i suoi nuovi amici sposta l’attenzione su questioni di dirimente attualità, come quella dell’accoglienza del diverso, del gioco come terreno comune e canale comunicativo privilegiato e, infine, sull’amicizia come strada maestra per l’uscita dal trauma. E da qui ritorniamo a E.T., perché se essere amici vuol dire non mentirsi mai – come viene ripetuto più volte dai personaggi – è proprio scegliendo la sincerità come terreno di fondazione dell’amicizia che è possibile essere davvero uno accanto all’altro e sfruttare le reciproche diversità come valore aggiunto e condiviso, che sia nei momenti di bisogno o in quelli di gioia collettiva.

Stranger Things sembra un film lungo quasi otto ore, hanno scritto in tanti e per certi versi hanno ragione. L’altra parte della questione è che Stranger Things sembra anche un romanzo (seppur breve, per ora), che forte della sua natura capitolare ha la possibilità di intrecciare tutte le storie che abbraccia nella maniera più efficace possibile, alternando i focus del racconto da un personaggio all’altro, passando da una storyline all’altra con un incedere assolutamente letterario.

A tenere insieme tutto ci sono quelle costanti tematiche che cavalcano trasversalmente il folto parco personaggi della serie, e che per ciascuno di loro si declinano in un modo preciso.

Impossibile non parlare dei due adulti protagonisti, di Joyce e Jim, l’una madre di un figlio scomparso e l’altro padre di una figlia morta prematuramente, uniti nell’avventura, nel bisogno comune di trovare una verità alla fine della vita, di coltivare un’ossessione e di condividerla, e soprattutto nella consapevolezza di essere in due e capirsi (e quindi conoscersi) proprio nel momento di maggiore difficoltà. Joyce e Jim sono come i due adulti di Incontri ravvicinati del terzo tipo, altro caso in cui la scomparsa di un bambino funge da scintilla narrativa, come se un’infanzia rubata a tradimento fosse lo stimolo per ritrovarla dentro se stessi. Mano nella mano i due scoprono di essere meno fragili insieme e di poter guardare verso l’orizzonte allo stesso modo, mossi da quell’eterno credere nel fascino inafferrabile dell’ignoto.

Stranger Things è un lavoro in cui la fantasia ritorna al potere, è la fantascienza che torna ad essere prima di tutto fiabascienza, che attraverso la riscoperta dell’immaginazione (pre)adolescenziale manda un messaggio di speranza universale, ponendosi come una mosca bianca in un panorama cinematografico e televisivo in cui (salvo rare eccezioni) le grandi storie viaggiano su binari sempre più simili e codificati.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 25/07/2016

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