Stoic

Basato su eventi realmente accaduti, il film di Boll è un claustrofobico e riuscitissimo trattato sulla violenza, sulle dinamiche del branco e sulla relatività dei concetti di etica e morale.

La fama di Uwe Boll, regista tedesco legato alla serie B e all’exploitation, non è delle migliori: considerato come uno tra i peggiori registi in assoluto da parte della critica, che stronca i suoi film spesso per partito preso, ha pagato lo scotto di aver realizzato prodotti indubbiamente di basso livello (da House of the Dead ad Alone in The Dark, entrambi tratti dagli omonimi videogames) con una sorta di marchio a fuoco di cattiva qualità che ha influito sulla diffusione di pellicole valide, quali ad esempio Rampage e Darfur, ambedue targate 2009. Nello stesso anno Boll realizza Stoic, probabilmente la sua opera migliore, passata sotto silenzio e annegata nel mare di pregiudizi che ormai sono, purtroppo, parte integrante del personaggio Uwe Boll.

Il film è ispirato a fatti realmente accaduti nel carcere minorile di Siegburg, Germania, l’11 Novembre del 2006: caso che fece discutere non poco, sia per le sentenze verso i colpevoli che per episodi precedentemente avvenuti nella medesima struttura. Tre detenuti, di età compresa tra i 18 e i 21 anni, spinsero al suicidio per impiccagione – ma in realtà eseguendo materialmente l’omicidio e tentando di far credere che fosse un suicidio – un loro compagno di cella di 20 anni di età, l’anello debole vittima di un branco che lo sottopose a torture, violenze carnali e sevizie per circa dodici ore prima della morte da cappio al collo, che avvenne dopo tre tentativi falliti. I colpevoli furono condannati a periodi di detenzione compresi tra i 10 e i 15 anni.

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Tre anni dopo, Boll scrive un adattamento dei fatti per il grande schermo: non una vera e propria sceneggiatura, bensì un canovaccio in cui i dialoghi sono improvvisati dagli attori; Stoic si snoda per 91 minuti spesso insostenibili a causa del sadismo e della crudezza di ciò che vediamo scorrerci davanti, una sorta di Big Brother malato e sanguinario ambientato in una cella angusta, inframmezzato da sequenze in cui i tre colpevoli, uno alla volta, parlano di ciò che è accaduto a un interlocutore invisibile e non udibile. Una sorta di interrogatorio che diviene dialogo con la propria coscienza ma anche dimostrazione di finto pentimento, capacità di mentire e cinismo che non conosce limiti. Boll ha scelto un materiale scottante e denso di trappole che non sempre riesce a evitare: vi era il pericolo evidente di cadere nel moralismo – presente comunque solo a tratti – nonché le insidie derivate dalla rappresentazione della violenza nuda e cruda, senza filtri o remore. Con Stoic, il regista è stato accusato, come già accadde per altre sue pellicole, di eccessivo autocompiacimento nel mostrare atti di crudeltà estrema, e di puntare allo shock facile: una lettura superficiale per un film che molti spettatori non vedranno una seconda volta in quanto profondamente doloroso, assolutamente disturbante, lontano anni luce dal concetto di intrattenimento anche nelle sue forme più pallide.

Un’ora e mezza di narrato che condensa dodici ore di calvario: Stoic inizia dal finale, dall’allarme fintamente disperato per il suicidio del compagno di cella lanciato da Henry, un Edward Furlong imbolsito e sfatto (lo vedremo anche in Darfur), che dona un’interpretazione gelida, rappresentazione ideale del grado zero di umanità del personaggio che incarna. Incarcerato per rapina a mano armata, rapina di cui “non avevo nemmeno bisogno, l’ho fatta solo per divertirmi”. Henry è il leader, il capobranco in un ambito darwiniano com’è quello carcerario, nel quale vige l’assolutistica legge del più forte e in cui il debole è destinato inesorabilmente a soccombere. Mitch (Shaun Sipos, presente anche in Rampage) è la vittima designata: condannato a sei mesi per vagabondaggio e resistenza all’arresto, da uomo diventa oggetto di carne su cui sfogare rabbie, frustrazioni e, in primis, quella noia opprimente che ventitrè ore al giorno tra quattro pareti di una cella rendono inevitabile.

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Tutto scaturisce da una partita di poker, l’ennesima per ammazzare il tempo: è proprio Mitch a proporre la posta in gioco, che vedrà il perdente costretto a mangiare un tubetto di dentifricio. Sarà lui ad essere sconfitto dapprima a carte, dopodiché come essere umano. Jack (Steffen Mennekes, che ha al suo attivo quattro film con Boll), in carcere per incendio doloso, è il sodale di Henry, l’altro braccio forte, colui che, in apparenza, non fa trapelare emozioni ma soltanto l’istinto di aggressività. Infine c\'è Peter(Sam Levinson), con a carico il possesso di stupefacenti a fini di spaccio, magrissimo e fragile, anche lui anello debole come la vittima, che divora per non venire a sua volta divorato.

Stoic è film bifronte: l’incipit ci mostra la conclusione, e dopodiché snocciola, in una cronaca minuziosa e aberrante, le sevizie subite dal giovane, il sadismo di Henry e Jack ma soprattutto la sostanziale ambiguità di Peter, che si rivela essere il character più interessante e meglio approfondito. L’altra faccia di Stoic, la più affascinante, risiede nelle interviste/interrogatorio: gradualmente, ogni personaggio si disvela, parallelamente e in contrasto con le immagini dalla cella. Jack è la figura maggiormente imperscrutabile: ha le lacrime agli occhi, ma potrebbe soltanto fingere, e fino all’ultimo si dichiara estraneo ai fatti. Henry si mostra per ciò che è: totalmente distaccato, freddo fino a risultare inumano, inizialmente nega per poi ammettere “sì, siamo tutti e tre responsabili della morte di Mitch”, che lui definisce, fino alla fine, “un niente, un meno di niente”. È l’unico dei tre a confessare la colpa,ma come se non fosse tale, come la cosa più ovvia e naturale nel contesto in cui si trovano. Peter, come già si diceva, è il più ambiguo e le sue parole rendono una buona analisi del personaggio: piange, si dispera, in cella lo vediamo tentare di difendere Mitch per poi pronunciare le parole: “spingiamolo a impiccarsi”. “O con loro, o contro di loro, e contro di loro avrei fatto la stessa fine”: carnefice per non essere vittima, ma al tempo stesso fautore dell’idea del finto suicidio. Istinto di autoconservazione che, spinto all’estremo, diviene impulso di aggressione: Peter teme i suoi compagni di cella al punto di fingersi come loro, ma al tempo stesso potrebbe cercarne l’accettazione.

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In Stoic non ci sono buoni o cattivi in senso tradizionale, esiste solo la disumanizzazione assoluta, l’adattamento forzato a condizioni di vita che possono trasformare una persona in ciò che non avrebbe mai pensato di diventare. Boll non nasconde un ovvio e chiaro sottotesto di critica verso il sistema carcerario, che però rende più ambiguo escludendo quasi totalmente (eccezion fatta per la breve sequenza iniziale/finale e per una voce via interfono) la presenza delle guardie carcerarie, che nei fatti reali vennero ritenute colpevoli di aver sottovalutato ciò che stava accadendo in quella cella: a Siegburg intervenirono a causa delle lamentele di altri detenuti per le urla di dolore e odio, ma una volta entrati non videro nulla se non la vittima che giaceva priva di sensi sulla branda, apparentemente dormiente, e i tre sodali che riuscirono a convincerle del fatto che stavano solo “spostando i mobili”. L’assenza totale di controllo esterno può anche essere vista come un’ulteriore invettiva, benché durante la visione venga spontaneo chiedersi se sia possibile che nessuno senta nulla: nella realtà, non andò comunque molto diversamente.

“A lesson in brutality”, recita la tagline: Boll dilata all’estremo le sequenze più insopportabili, mettendo lo spettatore con le spalle al muro, facendolo assistere impotente a qualcosa che si sa essere realmente accaduto.

Stoic è un film che va visto, può essere amato od odiato, ferisce e disgusta ma, senza ombra di dubbio, colpisce nel segno, e può contribuire ad abbattere quel marchio obsoleto e fastidioso di “regista pessimo” che Uwe Boll si porta dietro ormai da troppo tempo.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 28/06/2015

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