Speciale Oriente #8 / Three

Johnnie To: il senso della forma e dell'attesa.

«I was given a lot of space to create something personal and unique to me»

Johnnie To

Approdato al cinema come aiuto-regista di Wang Tin-Lam, Johnnie To entra a far parte del gotha dei cineasti più influenti della Hong Kong contemporanea. Nel 2016 il regista di A Hero Never Dies (1998) realizza il suo ultimo lungometraggio, Three, che rappresenta la summa di tutte quelle linee dirigenziali che sin dalle origini hanno connotato la sua tradizione tematica, caratterizzata dall’heroic bloodshed e dal poliziesco, e quella estetico-formale, con un recupero anche di quelle velleità estetiche – che già emergevano nello stadio aurorale della sua cinematografia con The Enigmatic Case (1980) – riscontrabili nella manipolazione di spazio e tempo.

Relativamente alla tradizione tematica, in Three si assiste ad una sovrapposizione di due generi cinematografici eterogenei, da cui il cinema di To è generalmente delimitato: la commedia e il poliziesco-noir. Nel primo caso, la pellicola sembra girata in odor di sit-com televisiva, ulteriore recupero di quella che è la genesi cinematografica di To: egli inizia a fare gavetta presso la TVB, un network televisivo che negli anni Settanta s’interessò al lavoro di artisti emergenti nel campo dell’audiovisivo, come Patrick Tam, Ann Hui e per l’appunto To, che vince il New York International Festival per il suo primo telefilm, The Legend of the Condor Heroes (uscito nel 1982, è il primo capitolo della famosa trilogia di Jin Yong (Louis Cha), che include anche Return of the Condor Heroes e Heaven Sword and Dragon Saber). Il livello comico è manifesto già nella sequenza iniziale del film, il giro di visite giornaliero dei dottori ai pazienti, in cui emerge anche la struttura manichea della narrazione, contesta cioè di comicità e drammaticità e avvalorata anche da una certa tipizzazione dei pazienti: il primo, un uomo anziano molto goloso che ruba le chiavi dei cassetti dell’ospedale, e il secondo, un ragazzo che vive abusivamente nell’ospedale da 6 mesi senza avere nessun malessere, sono sentinelle dello strato comico di Three; il terzo paziente, un ragazzo con una disfunzionalità alle gambe che sputa in faccia alla dottoressa e tenta addirittura il suicidio, incarna la facies drammatica – ma anche una differente fotografia contribuisce a distinguere le sequenze comiche da quelle drammatiche. Questa prima macrostruttura si combina a quella del poliziesco-noir, che emerge, oltre che nella trama che racconta la storia di un killer rimasto ferito durante un interrogatorio, giocata tra l’ispettore e l’arrestato, soprattutto nelle scelte stilistiche riguardanti lo spazio.

Spazio

Gli spazi di Three, come anche dei precedenti lavori del regista di Hong Kong, quali The Mission (1999) e Mad Detective (2007), sono caratterizzati da una precisione geometrica – e quasi coreografica – nella disposizione dei personaggi nello spazio, generalmente saturo di elementi: ma anche durante le sequenze più caotiche, la componente spaziale segue sempre dei canoni ben definiti che tradiscono, peraltro, una certa finzione ed artificiosità. Inoltre, la saturità di questi ambienti mette in risalto l’affinità di Three con il genere noir, in cui generalmente ambienti così “claustrofobici” contribuiscono «a creare un mondo che non è mai stabile né sicuro, e che minaccia sempre di cambiare in modo drastico e inatteso». [1]

A proposito della configurazione spaziale del film e, più in generale, nel cinema di To, scrive Andrea Fontana: «L’articolazione spaziale fra più immagini in Johnnie To rientra fondamentalmente in tre delle quattro tipologie proposte da Gaudreault e Jost (ndr: in Le recit cinématographique del 1990), quelle che analizzano l’alterità spaziale […] To propone un’alterità spaziale che si manifesta nella contiguità, con inquadrature diverse dello stesso spazio in cui si svolge l’azione, nella disgiunzione di prossimità, in cui si riprendono spazi diversi ma vicini, e infine nella disgiunzione di distanza, in cui i due spazi rappresentati non hanno possibilità di comunicazione perché eccessivamente lontani fra loro». [2]

Tempo

Oltre allo spazio, anche il regime temporale è di basilare rilevanza in Three. Esso assume una duplice configurazione: come fatalità e come estetica dell’attesa. Si diceva in principio che To recupera quelli che sono i punti cardinali delle sue origini cinematografiche, uno dei quali è proprio il concetto di tempo come destino: «il filo conduttore, minimo comune denominatore che, a posteriori, emerge dal primo periodo della parentesi Milkyway, è il puntare su temi specifici, sul concetto di tempo quale determinante assoluta del fato, sul ruolo concreto del destino nella vita dei personaggi, posti come pedine su una scacchiera senza che il libero arbitrio possa evitar loro l’inatteso, sempre in agguato», scrive Matteo Di Giulio [3]. E ciò viene riscontrato nello lo scambio di battute tra il dottore e la dottoressa:

Dr.: «It was just bad luck with this patient»

D.ssa: «I don’t believe in luck![…] None of it is luck. […] Lives are in our hands. It’s a matter of live and death»

Dr.:«not everything is within our control»

La seconda accezione che To attribuisce al tempo si rintraccia principalmente nell’assetto formale e visivo di Three: To, infatti, manipola il tempo attraverso un processo di dilatazione ottenuto soprattutto con l’espediente tecnico del rallenti, di cui esemplificativa è la scena finale della sparatoria girata in piano-sequenza. Si dà, allora, la percezione di un’attesa, suggerita anche attraverso un’esaltazione della funzione spettatoriale dell’ispettore che assiste sempre agli interventi chirurgici e, perlustrandone ogni movimento, attende che il killer faccia le sue mosse.

In conclusione, prendiamo in prestito le parole di Sergio Di Lino «l’opera di Johnnie To è transeunte eppure sempre uguale a se stessa, estremamente mobile e al tempo stesso rigidamente confinata entro uno specifico perimetro, retorico, drammaturgico, tematico; vive di ossimori, ma non è contraddittoria. Ragionando per similitudini, possiamo paragonarla a una linea curva, che prende, o riprende, molteplici direzioni pur mantenendo un’inalienabile continuità nel tratto».

[1]: Leonardo Gandini, Il film noir americano, Lindau (Torino), pag.125

[2]: Matteo Di Giulio, Fabio Zanello, Non è tempo di eroi. Il cinema di Johnnie To (2008), Edizioni Il Foglio, p.121.

[3]: Matteo Di Giulio, Fabio Zanello, Non è tempo di eroi. Il cinema di Johnnie To (2008), Edizioni Il Foglio, p.41.

[4]: Matteo Di Giulio, Fabio Zanello, Non è tempo di eroi. Il cinema di Johnnie To (2008), Edizioni Il Foglio, p.16.

Autore: Martina Mele
Pubblicato il 09/02/2018

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