She's Gotta Have It

Attraverso la sua prima serie, in streaming su Netflix, Spike Lee ritorna al suo cinema delle origini, ma a distanza di trent'anni la storia di Nola Darling è ancora di bruciante attualità.

Con la rischiosa scommessa che è She’s Gotta Have It, Spike Lee torna alle origini del suo cinema. La serie, comprata e distribuita da Netflix, è un remake in forma seriale del suo omonimo film degli anni Ottanta. Adattata ai nuovi anni Dieci, la storia di Nola è ancora attuale e ci interroga con la sua radicale libertà e le sue provocazioni.

She’s Gotta Have It è, innanzitutto, la storia di Nola Darling (DeWanda Wise) e della sua vita artistica, politica e sessuale. Nola ha relazioni complesse ma gratificanti con tre uomini diversi, i quali accettano con fatica il loro stato di amanti non esclusivi. Ognuno di essi arricchisce Nola per un motivo diverso: Jamie Overstreet è un uomo maturo, sposato e rassicurante, Greer Childs è un fotografo di moda vanesio e affascinante, mentre Mars Blackmon è un ragazzo stralunato e divertente. Nola deve lottare per difendersi dalla gelosia dei suoi amanti e definire i propri spazi e se stessa, mentre cerca di avviare la sua carriera artistica e riprendersi dal trauma di una molestia sessuale.

Sono passati trent’anni dal lungometraggio di esordio di Spike Lee, e le storie di donne libere ed emancipate come Nola Darling non sono più delle rarità, avendo trovato spazio, almeno in parte, nella nostra cultura pop: dopo Girls e Insecure (e in parte anche Sex and The City), il contributo di Spike Lee potrebbe essere percepito come non più determinante. Fortunatamente, Lee dimostra invece di avere ancora molto da dire quando racconta le storie che gli appartengono. A livello estetico, costruisce un’opera dialogica e corale e non esita a sperimentare con il linguaggio delle immagini, dal ritmo della narrazione ad uno stile di montaggio brillante ed originale (che Matt Zoller Seitz ha definito felicemente come «montaggio ipertestuale» [1]) cucendo narrazione e riferimenti culturali/musicali in un collage stimolante. Il ricorso frequente a sguardi in macchina e confessioni dirette allo spettatore definisce Nola come la narratrice consapevole della storia; dove le parole non arrivano, sono invece le immagini e i dipinti di Nola a rivelare i rapporti di forza e l’essenza dei personaggi.

Nonostante le premesse quasi surreali e la dimensione volutamente stereotipata dei tre amanti, il discorso sulle relazioni e i giochi di potere nella coppia è di precisione chirurgica. Lee ci parla di quell’eterno campo di battaglia che ogni coppia, ogni generazione e ogni opera contribuisce a definire come spazio di negoziazione e di incontro. She’s Gotta Have It è pieno di dialoghi, discussioni, litigi e schermaglie amorose che mostrano i rapporti nel loro costante ridefinirsi e le frizioni che, inevitabilmente, ne conseguono. Le relazioni sono complesse, e la stessa Nola non sa che cosa desideri veramente. La sua confusione è la confusione di una intera società che sta cercando nuove forme per definirle e adattarle ad una nuova epoca: nello scenario americano, basti pensare ai casi di Aziz Ansari e il dibattito intorno al racconto Cat Person per comprendere che questi temi sono scottanti e hanno trovato una nuova, necessaria centralità. Nola Darling sa bene che vuole essere libera di conoscere se stessa e interrogare la propria identità relazionale e sessuale, ed esprime la bellezza di questa libertà, nella vita e nell’arte.

La crisi relazionale di Nola è innescata dal trauma della molestia sessuale, e dal doloroso risveglio che ne consegue. Da questa crisi, Nola esce più consapevole e più forte: ha affrontato il mostro e ha capito la posta in gioco della sua libertà. Il mondo di Fort Greene, così come il mondo esterno, è permeato di violenza, sessismo, molestie e ingiustizie con cui i personaggi devono fare i conti. Gli amanti della protagonista sono ancora legati, in varie forme, all’idea di dominio maschile, e l’arte di Nola viene attaccata da un esaltato che percepisce la sua libertà come una minaccia. Shemekka, amica di Nola, affronta l’immaginario sessuale ed estetico tossico che sanziona il suo corpo come indesiderabile, mentre Raqueletta Moss reagisce al trauma di uno stupro passato con un’incrollabile volontà e una silenziosa determinazione a non essere sconfitta. Spike Lee ci invita a guardare negli occhi il convitato di pietra.

Un altro tema caro a Lee, che qui trova lo spazio che il cinema non ha potuto concedergli, è l’identità culturale e la coscienza di luogo. Fort Greene non è la stessa degli anni Ottanta, e Spike Lee ne aggiorna la mitologia e costruisce una affascinante, complessa "sinfonia della comunità" fatta di fotografie (alcune delle quali sono tratte dal film originale), canzoni e note di costume. Ne vediamo la gentrificazione, i conflitti sociali e i riverberi locali di eventi globali come l’ascesa di Donald Trump. Fort Greene è un luogo palpitante, in perenne trasformazione e attraversato da conflitti che Nola e gli altri vivono come parte delle loro vite; Spike Lee ci immerge in questa quotidianità con la passione di un attivista, con i pregi ed i limiti del caso.

A volte, il formato libero di Spike Lee sfugge di mano e le piacevoli digressioni si trasformano in autocelebrazioni, e in certi casi l’autore usa i personaggi come veicoli per trasmettere messaggi: un paternalismo eccessivo e un discorso a tesi che limita alcune delle potenzialità dell’opera. Tuttavia, nonostante questi eccessi autoriali, She’s Gotta Have It funziona e colpisce al cuore: la storia di Nola è raccontata con straordinaria empatia e Lee, nel corso degli episodi, si allontana sempre di più dal canovaccio originale del film per esplorare i personaggi e il mondo che abitano, con la spregiudicatezza di un autore ormai sicuro di sé.

In fondo, la storia di Nola è anche quella di un’artista che trova la propria voce.

[1] http://www.vulture.com/2017/11/shes-gotta-have-it-review.html

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 20/02/2018

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