See You in Texas

Per il suo lungometraggio d’esordio, Vito Palmieri sceglie la storia di due allevatori trentini

La cosa forse più sorprendente di See You in Texas è che il suo regista, Vito Palmieri, bolognese di formazione ma nato e cresciuto a Bitonto – città dell’entroterra barese conosciuta per la sua produzione olearia, la mirabile Cattedrale romanica e l’importantissima battaglia che sancì il trionfo dei Borbone sugli Austriaci (ricordata ultimamente, nei pochi cinema che l’hanno proiettato, dal film del lecchese Andrea Rondalli, Agadah) – sia andato a trovare, su suggerimento del ddf Michele D’Attanasio, che già aveva lavorato in quel territorio, una storia di “attaccamento alla propria terra” (ciò che, per sua stessa ammissione, gli interessava maggiormente) in Trentino, agli antipodi antropo-geografici dalla sua Puglia, nella comunità delle Giudicarie, tra Roncone e Lardaro, nella Valle del Chiese.

È il segno di un dinamismo intellettuale affrancato da autoctonie più o meno marcate, che insegue l’universalità di certi sentimenti senza aver timore di indagare fuori dalla propria “giurisdizione” elettiva, andando a scovare, con spirito neorealistico, microstorie reali, che parlano in gran parte da sé, senza abbisognare di grosse iniezioni di finzione per dire ciò che devono dire. Del resto una certa dimestichezza con il documentario Palmieri l’aveva già dimostrata nel 2010 con Il valzer dello Zecchino - Viaggio in Italia a tre tempi, vincitore nella sua categoria all’Annecy Cinéma Italien e il premio speciale della giuria al Festival Internazionale Arcipelago.

Niente Murgia – quella meravigliosamente surreale del viaggio fisico e metafisico, da topografia della memoria, della docu-fiction in tre puntate di un altro bitontino dal respiro (inter)nazionale: Cosimo Terlizzi –, niente trulli, mare, paesi assolati e desolati del Salento (Winspeare), piccole stazioni di campagna o masserie in disuso (La Stazione e La Terra di Sergio Rubini), il lungomare e le stradine di Bari Vecchia (La CapaGira di Alessandro Piva) o famose località turistiche da fiction RAI; nessuna Puglia già scoperta o da scoprire, ma i monti innevati di un bacino imbrifero montano a migliaia di chilometri di distanza da casa, un dialetto alieno, le grappe al posto della Peroni. Per vedere un po’ di Puglia in un suo lavoro, la Valle D’Itria tra Alberobello e Martina Franca in questo caso, bisognerà aspettare il suo prossimo film, Il giorno più bello, in uscita nel 2018.

La trasversalità di uno sguardo allargato fa pensare piuttosto all’incursione in Sardegna del concittadino Raffaello Fusaro con Le favole iniziano a Cabras. Palmieri, Terlizzi, Fusaro (ma per rimanere a Bitonto anche Pippo Mezzapesa, regista con cui Palmieri ha collaborato sin dagli esordi, in realtà piuttosto centrato sulla sua regione, ed Enzo Piglionica) sono figli di un Sud abituato – costretto, a dirla tutta, il più delle volte – a guardare oltre se stesso, a spaziare lontano. Abituati a guardare in faccia la realtà senza per questo rinunciare a slanci po(i)etici.

I due protagonisti di See You in Texas, già vincitore del premio della giuria allo Shangai International Film Festival, di quello del pubblico al Biografilm Festival e di numerosi altri riconoscimenti in altri festival internazionali, Silvia e Andrea, sono due innamoratissimi ventenni che condividono gran parte delle loro giornate nella loro (vera) fattoria a Roncone, tra duro lavoro, fugaci momenti di svago in discoteca o in birreria, tenerezze e normale dialettica di coppia. Al di là delle indubbie peculiarità, per così dire, fenotipiche, diretta conseguenza dell’influenza dell’ambiente (generale e particolare) in cui vivono, lo spaccato che li vede protagonisti è solo una delle infinite declinazioni, ciascuna unica a suo modo eppure interscambiabile, delle vicende umane.

La scansione del loro tempo è quella ancestrale ed ecumenica del ciclo giorno-notte e delle stagioni, la loro fatica quella comune a qualsiasi allevatore-coltivatore; la generazione cui appartengono è la stessa che vive, un po’ ovunque nel mondo occidentale, a cavallo tra la relativa modernità di certe forme liquide, smaterializzate, di divertimento (la discoteca, i videopoker, i videogame per dispositivi mobile), di comunicazione (i social, le mail) o di lavoro e la resistenza “analogica” di certe prassi ad alto tasso di operatività manuale che non conoscono scorciatoie, salti, ellissi o contrazioni spazio-temporali. La loro vita di coppia è quella di tutte le coppie del mondo, fatta di apprensioni, desideri e tensioni più o meno espliciti. Nello specifico narrativo, Silvia coltiva il sogno, dibattuto, (principale elemento di finzione, tra l’altro) di lasciare il proprio paese per trascorrere un po’ di tempo in Texas ad affinare le tecniche dell’amato reining (la disciplina d’equitazione americana un tempo prerogativa dei cowboy), un sogno che si proietta prima sullo schermo dello smartphone dove arriva la mail con l’augurio espresso nel titolo, sede per eccellenza del virtuale, dell’annullamento delle distanze, e poi in una terra altra, l’America, catalizzatore, anche questo d’eccellenza, delle brame di europei in cerca di maggior fortuna. Una terra che, non a caso, una sua amica descrive come fatta di spazi “enormi”, in cui tutto sembra “come nei film”. Andrea deve farci i conti in silenziosa e dolorosa disamina della faccenda: trattenerla a sé o lasciarla andare, con tutti i rischi che ciò potrebbe comportare per la loro relazione?

È proprio lui ad incarnare un radicamento stoico e convinto, capace di sopportare tutte le pietre (vere o metaforiche che siano) che possono funestare i campi toccati in sorte, in cui ci si vorrebbe impratichire, liberi e sicuri, alla vita sognata, come quelle che costellano lo spiazzo in cui Silvia si allena col reining. Pur senza la dimensione mitologica, dal chiaro iperbolismo allegorico, che aleggia attorno al protagonista di Monte di Amir Naderi, interpretato da Andrea Sartoretti, persuaso fin nel midollo a rimanere lì dove vissero i suoi avi malgrado maledizioni e montagne che nascondono il sole dell’avvenire, Andrea decide di restare ed aspettare. Continuando a lavorare sodo, solo, spianando la strada per il futuro (la nascita dei piccoli maialini, ma anche i titoli di coda sono in tal senso emblematici). E quando ciò avviene non c’è più nulla da raccontare: la mdp può anche essere sotterrata.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 10/12/2017

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