Saro

Il cinema come specchio del proprio vissuto nel racconto autentico della ricerca di un padre mai conosciuto

Enrico Maria Artale, già autore del film di finzione Il terzo tempo presentato alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, firma con Saro un documentario personalissimo, utilizzando il medium cinema non come lente attraverso cui osservare e scandagliare l’altro ma piuttosto come limpido specchio per indagare, coraggiosamente e definitivamente, se stessi. Saro è un diario visivo intimo e privato fatto di pagine dolorose, è un momento di autoanalisi e – afferma lo stesso regista – un atto terapeutico: perché il cinema in questo caso oltre che specchio è anche filtro, che impone e ribadisce l’oggettività del reale e che distanzia – salvificamente – l’autore dalla bruciante materia biografica che sta maneggiando, ovvero la ricerca e infine l’incontro con il padre mai conosciuto.

Premiato come Miglior Film in Italiana.doc alla 34ª edizione del Torino Film Festival, Saro è stato realizzato in un arco di tempo piuttosto lungo. Le riprese sono state effettuate tra la primavera e l’estate del 2009, quando Artale aveva appena iniziato gli studi al Centro Sperimentale di Roma e solo in una fase successiva – ovvero dopo un processo di raffreddamento necessario a maturare la giusta prospettiva di sguardo – il regista è tornato a lavorare sul girato per farne un film.

Quello che ne viene fuori è il sentito racconto del suo viaggio in Sicilia e il sofferto percorso interiore che lo accompagna: i dubbi, le aspettative, la tensione dietro la scelta di rintracciare il padre e infine il momento del confronto – più volte desiderato e più volte eluso – essenziale forse non in sé per sé, quanto per poter procedere sulla propria strada totalmente liberi e svincolati dagli spettri di ciò che è irrisolto, ignoto e ambiguo, spettri finalmente azzerati dalla volontà di conoscere e fronteggiare la verità anche qualora questa si riveli deludente, sconfortante o spiazzante.

Il regista offre allo spettatore una chiara chiave di lettura del proprio lavoro fin dall’incisiva citazione di Abbas Kiarostami posta in apertura, che è in fondo anche una appassionata dichiarazione di fede nel cinema: “Esiste una preghiera che dice: Dio, mostrami le cose e le persone per quello che sono, ed elimina le falsità che possono confondere la mia percezione. E Dio creò la telecamera digitale”. Quasi che le modalità del digitale (l’agilità, la flessibilità, la rapidità) potessero intervenire sull’ontologia del cinema avallandone una totale sovrapponibilità identitaria con la realtà che esso rappresenta. E’ in questo solco che il regista sceglie di muoversi, proponendo un’equazione (la stessa praticata, tra gli altri, dal Von Trier di Dogma 95) che fa coincidere l’autenticità della forma con l’autenticità della sostanza. In questo caso, inoltre, autenticità significa anche e soprattutto obiettività, asciuttezza, in ultimo sospensione del giudizio: è questa, forse, la più grande scommessa di Saro, ovvero tentare la strada dell’imparzialità muovendosi, senza vacillare, sul terreno minato dei sentimenti effettivamente vissuti sulla propria pelle. Ed è certamente una scommessa vinta, come dimostra l’estrema lucidità con cui il regista affonda il coltello nelle pieghe della realtà. L’essenzialità, la concisione, il linguaggio scarno e poco levigato del film non sono dunque frutto di una volontà che esaurisce la sua ragion d’essere sul piano puramente estetico, ma imposizioni – per così dire – conseguenti a una scelta di campo, in senso etico, rispetto a ciò che viene messo in scena.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 27/01/2017

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