People that are not me

La disincantata istantanea generazionale di Tel Aviv nell'esordio cinematografico di Hadas Ben Aroya.

«Non voglio partire con te.

- Lo sapevo

come facevi a saperlo?

- Perchè io parlavo di me e tu parlavi di te. Invece tu dovevi parlare di me e io dovevo parlare di te.»

Fino all’ultimo respiro, J.L. Godard - 1960

People are not me, in concorso alla 53ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, è l’ opera prima della regista israeliana Hadas Ben Aroya (Tel Aviv, classe 1988).

Messo in scena è lo sconfinamento registico nella prova d’attore, essendo l’autrice dietro e davanti la macchina da presa, per ritrarre, ispirata dalla quotidianità, una tranche de vie generazionale. L’intenzione dichiarata è quella di riflettere, senza prendersi troppo sul serio, sullo scompenso sociopat(et)ico che stigmatizza i suoi coetanei, cresciuti sotto l’egida di una cultura, quella occidentale, intrisa di illusioni di gloria personale e precipitose cadute da castelli in aria.

E dal momento che come la stessa afferma «Fare un film su persone non autentiche, richiede un’autenticità rigorosa», Aroya prende su di sé la responsabilità fisica e psicologica di quanto le preme narrare: questo deambulare occasionale di umori e suggestioni, prima repressi, raggirati, rifiutati, poi cercati, elemosinati, estorti con violenza.

Una generazione impavida, sicura d’avere il mondo in tasca, pronta ad elargire quel «cool» polivante, intercalare rindondante e minimizzante, adatto ad ogni situazione, buono per tergiversare e neutralizzare qualsiasi comunicazione, per offuscare solitudini sottese, se non proprio una certa inconsistenza di realtà.

Il punto di vista conduttore è quello di Joy, aspirante video artista, scaricata dal proprio ragazzo e intenta a soffocare il tarlo dell’ossessione in un banalissimo e inutilissimo chiodo schiaccia chiodo.

Joy senza troppe pretese si concede a chiunque le capiti a tiro, per riempire anche solo per un momento il vuoto che la divora, ma finisce sempre per sprofondare nel vuoto altrui, di vuoto in vuoto, sino a svuotarsi delle ragioni inascoltate e insinuarsi peso morto tra le lenzuola dell’amore perduto, volente o nolente, irrimediabilmente assediato nella ridicola morsa del tormento.

Corpo nudo offerto senza convenevoli, che trova intimità solo attraverso il monitor del pc, cassaforte di video-ricordi del passato e vaso di Pandora delle video-ossessioni del presente (affidare lacrime pornografiche ad una webcam nell’intento di smuovere qualsiasi reazione, erotica o pietosa che sia).

È questa la generazione delle confessioni su file in usb, delle chat telefoniche, quale unico filo d’appiglio tra info di servizio autoreferenziali e insignificanti; la generazione vittima delle ruminazioni mentali che secondo l’adagio la cura del tempo dovrebbe smaltire e invece persistono tremendamente vive nell’eterna riproducibilità visiva.

L’esordio cinematografico, astratto di sana pianta dalla conflittuale contestualizzazione religiosa e geopolitica del paese, esclusivamente assorto nel pedinamento, sovente in piano sequenza dei protagonisti su e giù per il lunghissimo viale alberato, tra bar e locali notturni di un quartiere di Tel Aviv, microcosmo di smarrimento, pare rifarsi e voler rivivere a suo modo l’ archetipo anafettivo godardiano di Fino all’ultimo respiro.

Come i celebri flaneurs Michel e Patricia (di cui, caso o meno, Joy indossa l’iconica maglietta a strisce bianche e nere) anche Joy e Nir (cui spetta il continuo e preventivo interrogarsi sulle insidie del sesso e dei sentimenti) si consumano nella dissimulazione di discorsi, quanto mai inconcludenti in camera da letto. Parlare e parlare di facezie per cercare il modo di parlare di sé ad un estraneo forse disposto con distacco ad ascoltare, non ravvedendosi affatto d’ avere invece di fronte un interlocutore assente, già fin troppo atterrito da se stesso. Un circolo vizioso di frustrazioni emotive, giostra depressa di amplessi inceppati sul nascere, sconfortati e sconfortanti, che ciononostante paventano l’illusione di uno slancio di calore. Joy recita inequivocabilmente la lezione di Michel Poiccard «Fra il dolore e il nulla ... tu che cosa sceglieresti? - Il dolore è idiota. Scelgo il nulla».

E non potrebbe essere diversamente, assodato che la ricerca dell’altro si manifesta come negazione continua, sia fisica (come l’ex e a seguire quanti altri si defileranno nel disimpegno di fondo) sia morale, nel dissenso per i modi e i pensieri altrui, sino all’annullarsi dell’atto sessuale fine a se stesso. Nessuno troverà pace dall’egocentrismo di cui è affetto (o infetto, se si pone mente per traslato al sospetto di gonorrea per trasmissione sessuale, che serpeggia per poco meno di un minuto e diviene l’ ultima infelice spiaggia d’approccio).

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 21/06/2017

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