Paradise

L'atteso film di Andrei Konchalovsky ingabbia il trauma della Shoah in una discutibile operazione politica

Una donna bionda, che poi scopriremo essere russa, viene sbattuta nella cella di un carcere francese. La didascalia ci avverte che siamo a Parigi, nel 1942, poche settimane dopo la retata del Vel d’Hiv, con la quale la gendarmeria francese arrestava 13.152 persone tra donne, uomini e bambini ebrei, per poi condurli nei giorni successivi prima nel campo di transito di Drancy, e poi ad Auschwitz. La scritta Paradise, titolo dell’ultimo film di Andrei Konchalovsky presentato in concorso, appare in sovrimpressione, quasi a volerci, da subito, suggerire un’analogia che sa di monito: per raggiungere il paradiso, l’utopia, gli uomini sono (e sono stati) disposti a compiere qualsiasi efferatezza, spingendosi verso traiettorie infernali.

Il film ruota interamente attorno alle vicende di tre protagonisti, che raccontano in prima persona le loro storie che, nel corso della narrazione, si intrecciano: un poliziotto francese, uomo del regime di Vichy che collabora con l’occupante nazista; una donna russa coinvolta nella Resistenza francese, che sarà deportata ad Auschwitz per aver nascosto due bambini ebrei; un ufficiale delle SS con il mito nietzschiano del superuomo, intenzionato a sconfiggere la corruzione dilagante nel lager in questione. I tre personaggi e le loro memorie post-mortem sono gestiti dal regista russo in modo fin troppo controllato. Nonostante le prime sequenze, ambientate a Parigi, avvolgano e colpiscano lo spettatore con affascinante e rigoroso bianco e nero, con il passare dei minuti Konchalovsky dimostra di non accompagnare il fluttuare dei protagonisti nella storia, ma di seguire delle linee narrative e caratteriali fin troppo predeterminate e costruite artificialmente. Le caratteristiche dei personaggi sembrano tagliate con l’accetta, al servizio di una precisa ideologia dello sguardo.

Complici, probabilmente, i finanziamenti statali del governo russo e tedesco, così come dell’European Jewish Fund, grazie ai quali il film è stato realizzato, Paradise si manifesta da subito come un film a tesi, forse su commissione. L’obiettivo, dichiarato dalla fin troppo didascalica schermata finale, è di raccontare l’eroismo nazionalista russo nel salvataggio di migliaia di bambini ebrei. Un film di stato, insomma, che non riesce mai a uscire da quelle gabbie delle ecumeniche politiche della memoria su cui appare costruito a priori. Un film, potremmo aggiungere, per far fare pace a russi, tedeschi ed ebrei.

A sentire i personaggi del film, Hitler e Stalin non erano poi così diversi, perché l’obiettivo di entrambi era di costruire un paradiso (utopico) in terra. Questa lettura banale e semplicistica della storia del Novecento, che riprende la vulgata secondo cui i totalitarismi sono brutti e cattivi (e quindi tutti uguali), è condita da una precisa volontà di trasformare le morti dei tre personaggi in altrettanti riti sacrificali, ciascuno compiuto per avallare il proprio ideale. Se, però, il poliziotto francese e l’ufficiale tedesco non avranno l’opportunità di redimersi di fronte a un Dio/regista, che interroga gli “imputati” in una specie di processo religioso, la deportata russa, in virtù delle buone azioni e del sacrificio finale che ha compiuto, ascenderà verso il cielo. Quello che interessa a Konchalovsky, o forse ai suoi committenti, è di mettere in scena un vero e proprio martirologio pubblico dell’identità nazionalista russa, con l’avallo del governo tedesco e della comunità ebraica internazionale.

L’operazione, che appare fin troppo indigesta, è ulteriormente caricata da una serie di scelte registiche e narrative fin troppo banali e inconsapevoli per un regista così esperto. Paradise, infatti, richiama apertamente l’immaginario degli Holocaust film così come si è costituito dalla fine della guerra, utilizzando una serie di topoi ricorrenti che, a oggi, risultano alquanto sbiaditi: dall’utilizzo del bianco e nero all’invasività del filo spinato, dalla centralità dell’innocenza dei bambini al rapporto a sfondo sessuale tra la vittima e il suo carnefice, dal nazista folle, violento e intriso di superomismo nietzschiano (ma che ascolta musica colta ed apprezza l’arte e la lettura sopraffina, in questo caso rigorosamente russa) all’utilizzo delle finte interviste come raccordo narrativo tra le varie vicende. Più che utilizzare questi motivi ricorrenti per inserirsi nel filone degli Holocaust film, Konchalovsky finisce per sembrare la parodia di Spielberg, Cavani, Visconti, Pontecorvo, Munk, e altri registi che prima di lui avevano già tracciato le linee guida di un vero e proprio genere cinematografico. A tutti questi esempi, Paradise dimostra di non voler (o poter) aggiungere nulla, se non un maldestro tentativo di rendere archivio delle immagini finzionali (seguendo un senso logico che non abbiamo rintracciato) attraverso l’utilizzo di una grana posticcia e di un audio disturbato. Questo sgangherato utilizzo del finto archivio raggiunge il grottesco quando vengono mostrati degli artificiali filmati amatoriali girati in Italia e proiettati in pellicola, che fanno il verso anche al Fellini di Amarcord e al De Sica de Il Giardino dei Finzi Contini.

Se il film, come detto, non aggiunge nulla a questo immaginario – e, anzi, ne fa inconsapevolmente una parodia –, dimostra di non lasciare spazio a quel rigore storico che le prime sequenze ci avevano fatto presagire. La ricostruzione dei meccanismi genocidari di Auschwitz è certamente accurata, ma si limita a una chiacchierata tra due ufficiali nazisti, chiusi in una stanza, che sfogliano un album di fotografie che, però, provengono da altri campi. Inoltre, da un punto di vista strettamente storico, c’è da chiedersi come sia possibile che dei bambini abbiano, prima, superato la selezione al loro arrivo e, poi, possano passeggiare indisturbati per Auschwitz e incappare, casualmente, nel Lager delle donne, nel quale si trasfomeranno e troveranno rifugio. Oppure, ancora, del perché alla protagonista femminile non siano stati rasati i capelli al suo arrivo ma, ci induce a pensare la scena finale, soltanto dopo la gasazione, come invece avveniva per coloro che venivano selezionati per la messa a morte appena giunti nel campo. Non ci interessa , però, soffermarci troppo sulle inesattezze storiche, quanto chiederci piuttosto se sia lecito che un regista del calibro di Andrei Konchalovsky possa mettere il suo cinema al servizio di un operazione politica di questo tipo che finisce per banalizare l\'immaginario cinematografico dell Shoah.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 08/09/2016

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