One More Time With Feeling

Dopo il lutto, uno struggente, unico, drammatico tentativo di raccontarne il vuoto e di aprirsi all’unica cosa che forse possa generare ancora senso e sollievo. Condividere.

In assenza di immagini, odori, pensieri, in assenza della materia ormai scomparsa, come si descrive un vuoto? Da dove si parte per definire un qualcosa che non c’è più? Probabilmente dai suoi confini, dai margini che un tempo circondavano ciò che era, dalla sagoma che l’oggetto scomparso ha lasciato nella tessitura del mondo.

One More Time With Feeling nasce dalla necessità di Nick Cave di elaborare e comunicare i sentimenti suscitati dalla morte del figlio 15enne Arthur, una richiesta che il cantautore australiano ha posto all’amico regista Andrew Dominik. In contemporanea sarebbero andate avanti le registrazioni del nuovo disco, Skeleton Tree, scritto prima del lutto ma in ogni modo frutto di quel trauma.

Il cinema come autoanalisi, come tentativo di dare forma a pensieri e sensazioni nella fede secondo cui comunicarsi agli altri, al di fuori da sé, sia l’unico modo per gestire la propria interiorità. One More Time With Feeling è allora anzitutto un atto di amore: la mano che Dominik tende all’amico Cave, lo sguardo e l’affetto che Nick e la moglie Susie Bick si scambiano senza parole, gli occhi del padre che tremano in profondità nell’evocazione del trauma (o meglio della morte, una parola mai pronunciata in tutta l’opera eppur presente ovunque). Il film si carica sulle spalle un peso impossibile, raccontare il dolore del lutto per ritrovare una strada, una narrazione che abbia senso. Del resto, lo dice Cave stesso nei frammenti di intervista frontale disseminati per il film, la vita per lui non si struttura più come una storia compiuta in attesa del suo farsi, non c’è più la capacità di individuare un senso e una direzione, l’esistenza si riduce ad un caos di frammenti evasi dalla logica consequenziale dello spazio-tempo. Ogni ordine tradizionale è andato spezzandosi, mentre la mente cerca di razionalizzare e assorbire un’assenza impossibile.

One More Time With Feeling vive della musica dei Bad Seeds, anticipa le tracce del nuovo album e documenta piccoli momenti strappati dalle registrazioni del disco. Alcuni brani vengono riportati integralmente, mentre la camera di Dominik si getta in una soluzione 3D in bianco e nero dagli esiti sorprendenti, inediti. Il sovrapporsi delle due tecniche infatti genera uno spaesamento e un senso di distacco, l’immagine si fa plastica ma assieme rimane incastonata nei riflessi e nella luce, nelle fredde linee geometriche del corpo di Nick Cave, nella morbidezza dei suoi gesti mentre canta. Come fossimo in Gravity la macchina da presa di Dominik perde a volte la sua corporeità, diventa uno sguardo di pura astrazione capace di attraversare ogni superficie, ignara della gravità e di qualunque restrizione fisica; altre volte il film ci precipita invece nella materialità digitale e fisica del suo farsi, entrano ripetutamente in campo ciak, cineprese, carrelli, indicazioni del regista, il documentario (definizione quanto mai stretta) diventa un campo aperto, poroso, suscettibile agli sguardi e agli improvvisi sprazzi di luce, scosso periodicamente dalla voice over rizomatica di Cave stesso, che condivide un flusso di coscienza fatto di poesie, osservazioni, confessioni.

Non esiste un rimedio al dolore, un sistema di segni che permetta di trasudare ed espellere la perdita e il lutto, ma del resto non può certo essere questo il senso e lo scopo di One More Time With Feeling. Nick Cave spiega in un certo momento come il trauma abbia riempito ogni recesso della sua mente, estirpando e soffocando lo spazio vitale lasciato prima all’esercizio della creatività. Forse il tempo permetterà a questo umore venefico di trasformarsi in futuro combustile, nel frattempo il film che Dominik regala a Cave è uno struggente tentativo di raccontarne il vuoto, per aprirsi all’unica cosa che forse possa ancora generare senso e sollievo. Condividere.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 06/09/2016

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