On The Milky Road

Tra animali strepitanti, monaci eremiti ortodossi e sgangherati effetti digitali, che fine ha fatto Emir Kusturica?

A otto anni dal documentario Maradona by Kusturica, il regista bosniaco naturalizzato serbo Emir Kusturica torna dietro la macchina da presa, presentando in concorso il suo nuovo, attesissimo film, On The Milky Road (Na mle?nom putu). La vicenda è ambientata in un ignoto contesto contadino durante le guerre jugoslave (1991-1995) e segue tre momenti diversi nella vita del protagonista, interpretato dallo stesso regista: la realtà quotidiana della guerra, dove un lattaio (Kusturica) si reca tutti i giorni in una fattoria a prendere il latte, da rivendere agli abitanti del villaggio; l’incontro con una donna italiana (Monica Bellucci), già promessa in sposa a un militare che sta tornando dal fronte, e la loro successiva fuga da tre soldati (forse croati) che vogliono farli fuori; la conversione di lui a monaco ortodosso e la sua vita solitaria (con forti venature autobiografiche), vissuta con il costante pensiero di lei.

La via lattea di cui parla il titolo è la strada che il lattaio è costretto a compiere ogni giorno per fare rifornimento di latte e, contestualmente, trovare un’occasione quotidiana per incontrare la donna italiana. La via lattea, però, va intesa anche in senso metaforico: un amore autentico e sincero, ci sta dicendo Kusturica, è l’unica via d’uscita possibile dall’universo della guerra. Fino a qui tutto bene. Se non fosse per la sequela di situazioni surreali, grottesche e paradossali in cui i due si ritrovano, che sfuggono sorprendentemente anche alla mano esperta dello stesso regista. Il tono grottesco e surreale, che ha sempre consapevolmente caratterizzato il cinema di Kusturica, finisce qui per ingabbiare la narrazione in una continua ricerca di una suggestione a effetto e sempre fine a se stessa.

Decine di aquile, serpenti, capre, galline, orsi e altre bestie selvatiche, animate da pacchiani effetti digitali, invadono da subito la scena. Girano su se stesse, si guardano allo specchio, bevono gocce di latte da una pozza, circuiscono gli umani. Sembrano quasi volerci dire qualcosa che possa andare oltre ciò che vediamo (gli animali sono più umani degli uomini?). Il regista serbo, tuttavia, non ci fornisce alcuno strumento di decodificazione simbolica. Se agli animali manca soltanto la parola, Bellucci e Kusturica scarseggiano anche del minimo sindacale di espressività. A loro parziale discolpa c’è una sceneggiatura abbastanza sgangherata, scritta dallo stesso regista-attore, che mescola confusamente toni, situazioni, personaggi e registri narrativi tanto da far smarrire lo spettatore tra gli assordanti versi degli animali e gli sgargianti quanto stranianti effetti visivi.

Il film, tuttavia, ci regala tra le sequenze più scult di tutto il festival: dalla gallina che si concentra di fronte allo specchio per deporre le uova, al serpente che agguanta e avvolge Bellucci quasi fosse il già cult poli-pitone de La Region Salvaje; dalla carneficina di capre in pascolo sul campo minato, con seguente Bellucci alla brace che ascende al cielo, all’orso grizzly che mangia le pesche dalla bocca del Kusturica monaco ortodosso, in versione queer rom-com. Le intenzioni registiche e di scrittura appaiono, come al solito, molto sincere, ma questo, probabilmente, non basterà a salvare il film. Piuttosto, viene da chiedersi tristemente che fine abbia fatto il regista di capolavori come Il tempo dei gitani (1988) e Underground (1995), forse rimasto schiacciato dal suo stesso cinema.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 10/09/2016

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