Netflix / Dove ritorna la serialità

La rivoluzione di Netflix tra vecchie e nuove serie, diffusione globale e innovazione semantica

In un percorso di crescente consonanza tra un linguaggio proprio delle serie televisive e una semantica più prettamente cinematografica (come approfondito da Matteo Berardini nel suo articolo all’interno di questa stessa copertina) quello che osserviamo quando parliamo della piattaforma Netflix si configura come un panorama artistico, produttivo e fruitivo in cui la distanza tra i due mezzi si fa sempre più esigua. Basti pensare ai tanti registi e attori appartenenti all’olimpo cinematografico che si prestano a prodotti destinati al piccolo schermo, di cui uno degli esempi più emblematici è proprio il Kevin Spacey di House of Cards, affiancati da coloro che, nati con la televisione, si muovono con molta più facilità e naturalezza tra i due contesti.

In questa rivoluzione mediatica, e nelle risonanze produttive e artistiche che ne conseguono, Netflix svolge un ruolo centrale. La società di Reed Hastings e Marc Randolph, infatti, svincolata dalle grandi major, ribalta e infrange le solide strutture dei network. Fin dalla sua nascita si muove trasversalmente imponendo nuovi standard e paradigmi grazie a un uso brillante e puntuale delle tecnologie e un utilizzo pionieristico della rete.

Quando nel 2011 Netflix inizia a produrre contenuti originali esclusivi per la sua piattaforma on demand, le logiche con cui affronta la sfida rimandano esplicitamente a quelle che avevano mosso l’azienda fin dal principio. Invece di adattarsi e far propria una dinamica nota, base di una struttura enorme e consolidata che sostiene i network televisivi, la società propone una nuova modalità di lavoro. Elimina, innanzitutto, la necessità di girare una puntata pilota, strumento essenziale che dava alle produzioni tradizionali la possibilità di valutare le potenzialità di un progetto e definirne il destino a venire. Netflix, entità dagli affascinanti e inquietanti superpoteri, si avvale di un misterioso algoritmo in grado di sondare, ricostruire e anticipare i gusti degli utenti. Così, alla stregua di Lars Von Trier nella lavorazione de Il grande capo, è un calcolo a stabilire a priori le possibilità di successo di una serie girata con criteri prestabiliti.

Perché, dunque, sprecare risorse nella realizzazione di un pilota quando già si conoscono con precisione matematica gli ingredienti necessari per costruire l’intero prodotto? Prodotto che arriva a uno spettatore già inspiegabilmente appagato ancor prima di aver visto uno show che ha automaticamente scelto di voler vedere, anticipandone la sua creazione attraverso le preferenze da lui stesso fornite sulla piattaforma.

Lo scardinamento dell’iter tradizionale di produzione porta, cosa per noi di particolare interesse, a una mutazione semantica dell’oggetto che fu televisivo e alla configurazione di una sua nuova struttura interna. Laddove, infatti, la stagione è scritta e prodotta come un unico grande film, l’autore di serie non è più colui che adatta una bibbia a un indice di gradimento, inventando man mano stratagemmi e colpi di scena atti a tenere lo spettatore in trepidante attesa nell’intervallo tra due puntate - spesso proposte a distanza di almeno una settimana l’una dall’altra - ma, piuttosto, riavvicinandosi al cinema, si fa scrittore di un lunghissimo script immediatamente unico, compatto e finito. Un prodotto da girare in un’unica soluzione e proporre al pubblico integralmente in rete, assecondando uno dei fenomeni più diffusi nell’era dello streaming e della pirateria, il binge-watching o abbuffatta di puntate.

Sull’onda del successo della prima serie originale targata Netflix, House of Cards, operazione che lancia il neo colosso americano nel magico mondo della produzione di contenuti, la società utilizza i suoi strumenti, dimostratisi validi, per compiere una nuova conturbante operazione. Avvalendosi nuovamente dell’algoritmo il team produttivo recupera dall’ergastolo dell’insuccesso economico alcuni contenuti abbandonati negli anni precedenti dai diversi network, poiché non soddisfacevano le esigenze economiche legate alle dinamiche di produzione tradizionali, e li ripropone al pubblico in vesti rinnovate. Un pubblico tenace e appassionato, seppur non sterminato, osservato con cura dallo sguardo attento di Netflix.

Il primo importante esempio riguarda una serie prodotta originariamente da FOX, Arrested Development – Ti presento i miei, pungente comedy sulla decadenza economica e morale di una famiglia borghese americana.

Narrato da Ron Howard, lo show utilizza il linguaggio del mockumentary in modo innovativo e brillante, anticipando la diffusione del genere in ambito cinematografico – e non solo, se si pensa al successo di prodotti quali The Office e Modern Family. Cancellata dopo solo tre stagioni, di cui l’ultima chiusa bruscamente dopo tredici episodi, la sitcom si è conclusa d’improvviso con un appello lanciato da cast e realizzatori ai fan in un’ultima puntata dall’esplicito, rassegnato e amaro titolo: Development Arrested. Pur essendo un grande successo di critica, la serie ha guadagnato il consenso del pubblico solo nel corso degli anni successivi alla sua messa in onda – anche grazie alla crescente fama degli attori protagonisti, in particolare Jason Bateman e Micheal Cera - tramite l’offerta su piattaforme web, legali e illegali, strutturando un fandom sempre più diffuso.

L’interesse per Arrested Development non è sfuggito al grande calcolatore di Netflix che, a distanza di dieci anni, ha ripristinato cast e autori per creare una nuova stagione, rielaborando e restituendo un coerente e fortunato revival dello show, sfruttando la sua lenta ma solidissima popolarità e adattandolo alle esigenze produttive e narrative della società. Superfluo dire che l’esperimento ha guadagnato il successo sperato, tanto da spingere il produttore Brian Grazer ad annunciare, per la gioia dei fan, una nuova stagione per il 2016, prodotta sempre da Netflix.

Dopo il primo fortunato esperimento, la società ha deciso di riproporre lo stesso schema con altre opere televisive in cerca di produttore. Recentemente è stata proposta sulla rete, ad esempio, la nona stagione di Trailer Park Boys, sitcom canadese che narra le vicende di una comunità che abita in delle roulotte. Mirando, invece, a un pubblico di giovanissimi, negli ultimi anni Netflix ha recuperato serie animate quali The Problem Solverz e DreamWorks Dragons, entrambe distribuite inizialmente su Cartoon Network. Anche i diritti di The Killing, abbandonata alla terza stagione dalla AMC, sono stati acquisiti dalla società di Reed Hastings che ne ha prodotta un’ultima di sei episodi.

Una delle conseguenze di tale rivalorizzazione operata da Netflix è la brillante campagna di marketing che rappresenta. Essendo la piattaforma in fase di espansione territoriale – la previsione è quella di inserirsi in duecento paesi entro il 2016, a fronte degli attuali cinquanta – l’esigenza è quella, nuovamente, di giocare d’anticipo e imporsi sull’immaginario ancor prima di poter monetizzare e consolidarsi come concorrente diretto delle reti delle singole nazioni. Schierata contro i colossi, Netflix ha restituito ai fruitori di serie tv i personaggi che amavano, ripescandoli scientemente da un magma apparentemente indistinto. Paladina dei fan, ostenta un atteggiamento da supereroe potente ed egoista, che ruba ai ricchi per dare al pubblico esattamente ciò che desidera o, ancor più, ciò che non sa ancora di desiderare. Il nome della società echeggia come un tuono foriero di catastrofi negli uffici dei network mentre stuzzica pericolosamente la fantasia di innumerevoli appassionati in tutto il mondo.

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Autore: Lulu Cancrini
Pubblicato il 06/07/2015

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