mother!

mother! di Darren Aronofsky è uno sconcertante film-metafora sulla creazione (artistica e divina) e dunque sulla situazione in cui si trova il suo autore.

Dopo il diluvio universale Darren Aronofsky riparte dalle fondamenta di una casa sperduta tra il nulla e l’addio. Una casa appena rimessa a nuovo dopo un incendio che l’aveva ridotta in cenere. Ad abitarla c’è una coppia senza nome. Semplicemente un uomo (scrittore…) e una donna. Basterebbe già solo lo spunto iniziale a dire con chiarezza cristallina ciò che si nasconde dietro un progetto per certi versi sconcertante come mother!. Film-metafora (incubatore di altre decine di metafore di ogni genere) sulla creazione (artistica e divina), e dunque anche sulla situazione in cui si trova il suo autore, alla ricerca di un nuovo inizio dopo l’esperienza hollywoodiana e soprattutto dopo un lungo percorso cinematografico che lo ha visto affrontare nell’arco di due decenni, e con alterne fortune, diversi generi e immaginari, dal thriller psicologico allo sci-fi, dal kolossal biblico al dramma realista, uscendone ogni volta come prosciugato.

A pensarci bene il cinema di Aronofsky sembra abitato da questa idea della trasformazione, non tanto come risultato di un talento poliedrico quanto piuttosto come necessità del regista di ripartire ogni volta da zero. Era già successo dopo The Fountain, che rimane tutt’oggi il suo flop più clamoroso e bruciante, a cui era seguito il dittico sul corpo-spettacolo composto da The Wrestler e Il cigno nero, così com’era poi successo nel doppio salto mortale che lo aveva (ri)portato ad Hollywood. Con mother! Aronofsky sembra volersi mettere ancora una volta in discussione, ripartendo da un nuovo atto fondativo (tra Vecchio e Nuovo Testamento) che però viene spazzato via da quella tensione verso la distruzione che attraversa buona parte del suo cinema. E che qui raggiunge vette inusitate. Aspetto in un certo senso contraddittorio per un’opera che riflette sfacciatamente sul processo di elaborazione creativa. O forse no, considerato l’approdo finale che in qualche modo sancisce l’impossibilità della creazione svincolata dal principio della distruzione, unico vero orizzonte di mother!, film condannato sin dalla prima inquadratura all’annichilimento, alla devastazione totale.

La sua struttura, divisa in due blocchi distinti, palesa questa idea della trasformazione/distruzione come premessa necessaria del cinema di Aronofsky facendone il cuore stesso del film, che trova proprio a partire da un tentativo fallito (l’irruzione perturbante della coppia di ospiti Ed Harris e Michelle Pfeiffer) il suo turning point dal quale ripartire con ancora maggiore forza in vista della sconcertante seconda parte. Dove mother! letteralmente esplode, tra riferimenti e simbologie di ogni genere e (dubbio) gusto, e una messa in scena ipertrofica che ricorda, tra i tanti referenti, persino lo Tsukamoto di Tetsuo: The Bullet Man (cineasta non a caso molto amato da Aronofsky).

Segno di un cinema senza dubbio generoso nella fiducia che accorda al potere delle proprie immagini di poter essere ancora generatore d’inquietudine, angoscia, vertigine. In questo senso va dato atto al regista di credere sinceramente in ciò che dice e in come lo dice. Peccato solo che questa sincerità di fondo trovi espressione non solo nella messa in scena (non sempre così convincente, vedi l’utilizzo reiterato e stanco del pedinamento da dietro) ma soprattutto in un apparato metaforico di sconcertante banalità che arriva a schiacciare, limitare ulteriormente le sue immagini, fin quasi a lambire il ridicolo involontario. Come se malgrado tutto le immagini da sole non bastassero a sorreggere il film, ma avessero bisogno di una cornice teorica e “intellettuale” che possa riscattarle ed elevarle. Ecco allora che da una prima parte polanskiana, tutta giocata su una tensione sottile ed insinuante, si passa ad una seconda di segno diametralmente opposto, in cui il set diviene teatro di un conflitto sempre più disturbante in cui confluiscono e si sovrappongono le principali linee di tensione che attraversano il contemporaneo (e non solo…): dalle guerre all’emergenza clandestini, dall’ecologia alla sovrappopolazione. Tutto sintetizzato in un unico set-campo di battaglia che prima o poi, inevitabilmente, esplode. Come fosse una demolizione controllata, Aronofsky pare divertirsi a testare ogni volta tanto le proprie capacità registiche, quanto la tenuta strutturale delle proprie case/opere, chiamate a superare sfide sempre più estreme. Fino all’inevitabile distruzione, che però non è mai definitiva. Ci sarà sempre un nuovo tentativo (dagli esiti si spera migliori) dal quale ripartire.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 06/09/2017

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