Le cercle des noyés

Un documentario scabroso e radicale, pieno di immagini di feroce e prepotente bellezza.

Un film come Le cercle des noyés, presentato nel 2007 al 57° Festival di Berlino nella sezione Forum, non può non alzare l’asticella nel panorama sfaccettato e multiforme del documentario contemporaneo, un macrocosmo ribollente di stimoli e più che mai pieno, oggigiorno, di procedimenti stilistici radicali e avanzati. Il voto di castità da cui muove l’ispirato e dolente lavoro del documentarista belga Pierre-Yves Vandeweerd, che sceglie di ricorrere solo a una voce fuori campo e a scorci paesaggistici angosciati e funerei, è infatti quanto di più netto ed essenziale si possa immaginare e quanto di più adeguato per raccontare un argomento scabroso e rimosso (drowned in oblivion, recita il sottotitolo) come gli atti ripugnanti perpetrati in Mauritania ai danni dei neri musulmani. Il documentario segue la storia personale di Bâ Fara, imprigionato nella seconda metà degli anni ’80, quando il paese era già caduto nelle mani di una dittatura militare. Costeggia il flusso verbale del suo racconto, accarezza le sue sofferenze, lambisce il resoconto laconico di un patimento inimmaginabile, narrato con impersonale afonia da una voce piatta e sempre uguale, ma non per questo priva di calore e di una temperatura emotiva.

Il regista, dal canto suo, si declassa oculatamente in una posizione di subalterna ma tutt’altro che passiva invisibilità. Lascia parlare, in sua vece, un bianco e nero così contrastato che ogni inquadratura pare essere avvolta da una coltre di dolore autonoma e ogni immagine sembra fare i conti con un mistero e una ferita solo propri, del tutto personali. Vandeweerd, facendo leva sulla totale assenza di compromessi formali e con lo spettatore, trasforma l’odio fratricida che macchiò lo stato arabo in un faccenda sfacciatamente e disperatamente privata, non ha timore di far dialogare le rimozioni operate dalla Storia ufficiale e i ricordi di uomini che invece quelle frattaglie le hanno penate direttamente e che certe cicatrici, ingombranti come tatuaggi impressi a ferro e fuoco sulla pelle, tornano a fissarle giorno dopo giorno, rinnovando la costernazione affranta per i torti ricevuti. Un agire principalmente all’insegna dell’astrazione e dell’introspezione, quello di Vandeweerd, che predilige il sentimento in luogo del dato, che spinge fuori campo le storiografie codificate e promuove piuttosto a fulcro massimo del suo interesse le sensibilità di coloro che c’erano, gli ex detenuti di Oulata, le vittime dei soprusi. Volti che in alcuni momenti scorrono, uno per uno, sullo schermo. Non dei santini, ma i depositari di identità violate e desideri martoriati.

Proprio il carcere di Oulata, in cui tanti uomini furono internati nell’arco di tempo che va dal 1986 al 1991, è la roccaforte da cui tutto muove, il perno di ogni disgrazia, nonché ciò cui Bâ Fara è miracolosamente sopravvissuto. La sua prigionia non passa dal bianco dei suoi occhi, che ovviamente non vediamo, ma dalle immagini stesse del film, alle quali il regista affida letteralmente tutto: stati d’animo, accenni, digressioni, precisazioni e dettagli, brividi d’indignazione, pianti velati e calde lacrime. Il fatto che quelle immagini siano eccentriche rispetto a ciò di cui si parla, alquanto generiche e non sempre raccordate coi monologhi della voce fuori campo, non fa altro che amplificare la bellezza misteriosa e sfuggente del film, la sua strascicata e mai accomodante disperazione, la sua astrazione, si diceva, condotta in forme prepotenti e metafisiche. L’astratto, nel film di Vandeweerd, fa rima col pudico: lo sforzo immaginativo di convertire gli spietati orrori vissuti in racconto va di pari passo con la negazione fisica di quell’esperienza, che dalle immagini viene estromessa per accogliere al loro interno una speranza verisimile (ma puntualmente negata), per azzardare una nuova possibile visione delle cose, per esprimersi con una poesia visiva e immaginifica che sia tanto intensa da tenere testa all’ostinata crudeltà di ciò che si è subìto. E che è difficile dimenticare.

L’unità data dalla voce di Bâ Fara viene spezzata solo in pochi casi, nella fattispecie da tre interviste: a una donna, moglie di un prigioniero, a un ragazzo che risiede a Oualata e a una guardia carceraria che si trincera dietro gli ordini che gli erano stati imposti e che era obbligato a eseguire, a suo dire; una scena, quest’ultima che porta inevitabilmente e beffardamente Le cercle des noyés, frutto di un impegno decennale e girato in semiclandestinità, dalle parti degli spettrali pugni nello stomaco realizzati negli ultimi tempi dal regista Joshua Oppenheimer. Vandeweerd, che l’Africa la conosce benissimo avendoci spesso ambientato le sue opere, aggiunge un altro tassello alla sua personale mappatura di un intero continente e ci regala un film simile a un sogno livido e notturno, eppure concretissimo e di un’urgenza spaventosa.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 15/04/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria