Il racconto dei racconti - Tale of Tales

Tra epica cavalleresca e barocco italiano, Garrone costruisce un mondo visivamente stupefacente che smarrisce però il cuore e l'emozione

Un fantasy ad alto budget dal respiro barocco, con un cast internazionale e una sceneggiatura nata dalla più antica raccolta di favole prodotta dalla letteratura europea, Lo cunto de li Cunti del napoletano Giambattista Basile. E’ difficile immaginare un film più azzardato di questo Il racconto dei racconti – Tale of Tales, eppure nonostante tutti i rischi l’ottavo film di Matteo Garrone si colloca con estrema naturalezza nel percorso intrapreso dal regista romano.

Quello di Garrone del resto è da anni cinema di genere. Escluso l’inizio semi-documentaristico e il morettiano Estate romana, da L’imbalsamatore in poi il cinema di Garrone ha attraversato un genere dopo l’altro, dal noir al melò, dal thriller psicologico alla commedia di costume, un viaggio che trova la sua pietra angolare nella stratificazione iconografica prima ancora che drammaturgica di Gomorra. Approdare al fantasy allora non è poi cosa tanto aliena, specie se tale incursione si verifica in quella crasi tra iperrealismo e stilizzazione che da anni caratterizza questo cinema, capace di trovare una verità interna all’immagine in un dialogo tra resa realistica e costruzione minuziosa e pittorica.

In tal senso Il racconto dei racconti non fa eccezione: incontro di opposti, il film nasce dalla volontà di restituire un fantastico ancorato al reale, una dimensione magica che comunque non perda mai la sua consistenza materica, quasi granitica tanto il film è dominato dalla durezza della pietra – mura di castelli e labirinti, pareti di caverne montane e grotte scavate da fiumi.

Vuoi l’estetica del genere, vuoi le necessità tecniche di un’operazione così vasta, Garrone qui è costretto a rinunciare alla sua camera a mano, a quell’immagine pedinante, incerta ma mai troppo nervosa che si porta dietro da sempre, favorendo al suo posto la morbidezza della steady. Tuttavia a fronte di questo sacrificio Il racconto dei racconti non perde mai la sua natura corporale. Ecco allora le tre storie popolarsi di corpi e carni che mutano, e mentre ogni artefatto viene restituito anzitutto fisicamente (soprattutto nei colori, a volte quasi carnali nella loro intensità) anche la creatura più fantastica assume fattezze a suo modo credibili, vicine, e soprattutto vive in parte in digitale ma in buona parte sul set, materia analogica di un cinema che rivendica la sua artigianalità limitando al minimo indispensabile l’uso della CGI (comunque di ottima fattura).

Incontro di opposti si diceva, e certo non solo per la resa estetica dell’immagine. Il racconto dei racconti infatti inizia come un fantasy quasi canonico, una favola di re e regine, draghi e negromanti, ma presto al posto della magia più immediata cresce uno sguardo filologico rivolto alla genesi stessa del fantastico. Garrone e i suoi sceneggiatori riescono nella mirabile impresa di unire la favola nordica, la teatralità italiana più calda e la fredda eleganza dell’epica cavalleresca bretone. Corti barocche popolate da saltimbanchi e mangiafuoco incontrano draghi albini, re cavalieri e orchi assassini, in un dialogo che restituisce con estrema naturalezza un rinascimento favolistico credibile e concreto. Ed è in questo equilibrio che Garrone può permettersi di attingere a piene mani dalla propria esperienza e consapevolezza pittorica per restituire immagini di una bellezza stupefacente, costruzioni attentissime nelle quali Rubens e i preraffaelliti si incontrano alla luce del giorno, mentre nelle tenebre di grotte da non attraversare riposano creature notturne e mostruose fuoriuscite dagli incubi di Goya. Il racconto dei racconti, grazie anche alla volontà di utilizzare finalmente alcune delle incredibili location offerte dalla nostra architettura medievale, riesce allora a restituire un mondo magico ricco di dettagli e suggestioni, che nel passaggio dalla carta allo schermo si apre a parentesi di smaccata ironia e orrore gotico. Tuttavia, per quanto ci si possa perdere nel labirinto di immagini, a questa lussureggiante resa visiva non corrisponde altrettanta solidità di scrittura; il film di Garrone appare spesso poco centrato, quasi disinteressato a raccogliere i frutti di quanto seminato favorendo piuttosto un’astrazione che congela il cuore stesso del racconto.

Le tre storie che formano il film ruotano attorno a tre figure femminili, colte in età diverse e tutte in un modo o nell’altro vittime della propria o altrui cupidigia, perse tra la forza magica di una vita che dirompe e la necessità ineluttabile della morte. Come fossimo in un racconto di Borges il labirinto rappresenta tale confusione dell’anima, un giardino di sentieri che si biforcano che a sua volta si riflette in una narrazione rapsodica e claudicante. Come l’equilibrista sospeso sul vuoto che chiude il film, tutta l’opera scorre in una costante ricerca di equilibrio: si mettono in scena mutazioni e ossessioni e desideri ma l’incedere è sempre quello di un passo alla volta, di un’andatura troppo controllata per accendersi ed emozionare davvero. Nella sua estrema compostezza visiva Il racconto dei racconti evita ogni smarrimento o esplosione e diventa un film freddo, barocco ma statico. Spesso Garrone ha lavorato sul genere in termini di sottrazione – su tutti in Primo amore – ma qui astrae la materia andando incontro ad una resa intellettuale che si perde per strada il cuore e l’emozione. Problema non da poco per un film che dovrebbe nutrirsi di fantastico e meraviglia ma che invece raramente riesce a toccare e sconvolgere nel profondo.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 08/05/2015

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