Il prigioniero coreano

Kim Ki-duk continua il percorso degli ultimi anni con un calvario esistenziale e nazionale che riflette crisi e lacerazioni delle due Coree.

Chi scrive, più di due anni fa, non aveva saputo comprendere un film come One on One, cadendo nella trappola di troppa critica che lo bolliva come didascalico e apologico. Oggi, necessariamente, bisogna ritrattarsi, per una questione non di incoerenza ma di onestà. Sono obbligato a correggermi, a mettermi in discussione di fronte a quest’ultimo Kim, perché ormai il regista di Bad Guy e de L’Isola si mostra così nudo, così disinibito, così dolente da essere di una sincerità disarmante. Il suo ultimo cinema è un grido personale e collettivo, una fusione imperfetta tra furia di sguardo e urgenze personali. A gettare luce su questo percorso è Il prigioniero coreano), progetto assai più strutturato dei precedenti, fortemente voluto dal regista dalla prima all’ultima inquadratura. Perché il film potrebbe giustamente diventare il manifesto di questo “nuovo cinema” kimkidukkiano: un cinema che ormai se ne frega di piacere o non piacere, di rispettare ciò che era e ciò che sarà. Un cinema sempre al presente, che non ha altre preoccupazioni se non il gesto politico del suo autore. Programmatico? Didascalico? Certamente, ma ancora di più didattico, con una tale evidenza, una tale ostentazione, da alienare ogni parola, immagine o sguardo.

Kim ormai non mostra più con le sue immagini, ma urla a squarciagola, ci rende partecipi del suo dolore, richiede un’empatia travolgente perché ha fiducia nei singoli e non nelle nazioni. Questa continua ansia di fare del cinema una macchina morale, questo suo continuo volerci ferire con infinite coazioni a ripetere, è un gesto cinematografico fondato certamente sulla crudeltà. Ma all’interno di questa crudeltà, Kim ritrova la tenerezza perduta nei confronti dei suoi personaggi: il protagonista è infatti un pescatore della Corea del Nord che, dopo un incidente alla sua barca, finisce alla deriva in Corea del Sud. Qui verrà sottoposto a un’infinita serie di interrogatori, tutti volti a distruggerlo psicologicamente, ma lui non molla, per il bene della sua famiglia e della sua patria. Il pescatore, padre dal volto buono, è un personaggio ingenuo fino all’idiozia, che ritrova proprio in quest’ingenuità, in questo modo purissimo di vedere il mondo, la propria salvezza. Lui come quello che pare il suo alter-ego, il doppio speculare che ha le pelle di un bambino e le speranze di chi crede ancora nel mondo: il sorvegliante, fratello, compagno nel dolore, ma soprattutto uomo. Queste luci sono come fari nella notte, possibilità di un’unione nazionale: che si possano saldare le lacerazioni di un paese, che la Corea diventi unita, tramite l’umanità delle persone, al di fuori delle logiche del potere e del controllo. La Seoul che appare al protagonista (che non vorrebbe aprire gli occhi) è sicuramente il regno del consumismo, ma è anche la possibilità di un incontro (ci riferiamo qui alla splendida parentesi con la prostituta, alla gratuità di ogni piccola, buona azione: questo ci pare il centro poetico/affettivo del film).

Kim fa dire tanto, troppo ai propri personaggi, ma ormai è proprio questo il punto: una prostituta può dire che un paese libero non è necessariamente un paese felice e così via. D’altronde il ritorno in Corea del Nord è la risposta speculare a tutta la parte in Corea del Sud: il problema sono le ideologie che continuano a soffocarci, ribadisce Kim inquadratura dopo inquadratura. Uno Stato esercita il suo potere con la seduzione e con il terrore, due facce della stessa medaglia: Kim rintraccia nella ripetizione l’essenza della crudeltà, nel suicidio l’unica vera liberazione. Tutto ritorna come in una fiaba di opposti perfetti, una sorta di danza macabra, asfissiante sul nostro tempo. Così come il protagonista: il suo calvario è una parabola, la storia di una trasformazione tutta esistenziale. Dall’ingenuità iniziale a una progressiva, dolorosissima lucidità. Ma se l’ingenuità ci rende vivi, la lucidità ci atrofizza, ci automatizza, ci rende estranei a tutto e a tutti, e infine ci uccide. Eccola, è proprio lei il pericolo più grande. Ed ecco che un film di denuncia – come si sarebbe detto un tempo – arriva al parossismo estremo di denunciare se stesso.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 31/08/2016

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