Il ponte delle spie - L'etica asimmetrica

Nel momento della trasgressione delle leggi (simboliche), l’uomo spielberghiano le riafferma, seguendo l’ideale che le ha ispirate nel corso del processo legislativo

Dopo Lincoln continua la fase costituente del cinema spielberghiano con un altro film calato nell’agone della Storia. La natura politica dell’operazione non si offre banalmente dal contesto temporale, ma dalla sfida che gli uomini sono chiamati a raccogliere nel momento del conflitto. Di ogni conflitto. Una sfida che appartiene al confronto serrato con l’universo simbolico di riferimento. Detto in altri termini, con quell’insieme di regole e leggi che definiscono e strutturano la vita democratica e al contempo restituiscono, come in un’immagine riflessa, l’identità di un paese. Siamo ancora una volta nelle stanze del potere: in Lincoln era la Camera dei Rappresentanti, ovvero nel luogo in cui vengono approvate le leggi; qui in un’aula di tribunale, dove le leggi vengono messe in pratica, soggette alla verifica incerta della prassi giudiziaria. Tutto passa dalla rappresentazione simbolica di un potere che interviene e indirizza il percorso di un popolo. Due le strade possibili: affermare il principio al di sopra delle parti e degli schieramenti, oppure deviare dal consueto tracciato etico in nome di una supposta e pericolosa eccezione legata ai termini del conflitto.

Si tratta allora di capire quale dovrebbe essere la finalità del processo. La condanna dell’imputato, evidentemente colpevole, oppure la garanzia di un giudizio equo? Quella che sembra una questione di poco conto, quasi un artificio retorico nello scenario potenzialmente distruttivo della Guerra Fredda, diventa nelle mani di Spielberg il grimaldello con il quale scardinare ogni retorica muscolare, rivendicando un principio di autentica giustizia che pur avendo un valore universale e più che mai attuale – alla luce di Guantanamo e degli oscuri presagi che provengono dal fronte mediorientale – è indirizzato in primo luogo al suo paese. In questo senso il film va visto come il completamento di Lincoln. Il processo legislativo che nell’1865 aveva visto l’abolizione della schiavitù, si trova nel 1962 in una fase nuova e forse ancor più insidiosa, perché richiede al paese non solo un’identità comune (faticosamente conquistata proprio negli anni presidenziali di Lincoln, che ricucì lo strappo tra nord e sud) ma soprattutto di interrogarsi su quale sia questa identità, su cosa si fondi. Detto in termini bellici: per cosa si combatte? Per rivendicare la propria supremazia militare o in nome di diritti e valori non negoziabili? In questo senso il nemico sarebbe potuto essere chiunque, non per forza sovietico.

Gli spettatori più distratti potrebbero pensare, erroneamente, a Il ponte delle spie come ad un film segnato dal radicale scontro dialettico tra due forze, due blocchi. Da un lato i buoni, gli americani, e dall’altro i cattivi, i sovietici. Da un lato la democrazia e dall’altro la dittatura. Niente di più sbagliato. Per Spielberg è in gioco semmai il ruolo del soggetto nella pratica quotidiana della mediazione, dell’incontro, del dialogo, anche a costo dell’impopolarità. Una mediazione che riguarda non solo il rapporto con l’altro, con la parte avversa, ma anche con le regole e con le leggi del proprio stato, rinegoziate tra interpretazione e adesione acritica. In alcune situazioni limite il soggetto è portato a trasgredire le leggi, a patto di non tradire lo spirito che le sottende e che le ha prodotte. Perché “ogni uomo è importante”. Concetto che Spielberg ha sempre sostenuto nel corso della sua carriera, e che ha affrontato in tempi relativamente recenti in un grande e sottostimato film come The Terminal, anch’esso interpretato da Tom Hanks, uomo etico per eccellenza del cinema spielberghiano. In quel film si mostrava la condizione paradossale di uno straniero (proveniente, tra l’altro, da una fittizia ex Repubblica sovietica…) incappato suo malgrado in un vuoto legislativo e per questo condannato a vivere forzatamente entro il perimetro ristretto di un terminal aeroportuale americano. Zona franca dell’identità (e della legge) che l’uomo faceva propria, fino a ritagliarsi uno spazio tutto suo, mettendo in crisi quell’autorità (rappresentata dal personaggio di Stanley Tucci) che in nome della bacata adesione alle direttive, dimenticava che “a volte bisogna glissare sulle regole, ignorare le cifre e concentrarsi sulle persone, [perché] le persone, la tolleranza sono il fondamento [dell’America]”.

Ecco, Spielberg riparte proprio da qui, dalle persone comuni come motore della Storia, dividendo il suo film in due parti nettamente diverse, che afferiscono a due generi, il legal thriller e lo spy-movie, e a due paesi, l’America e la Germania. Teoria e pratica. Nella prima frazione, come abbiamo visto, si insiste sulle tappe del processo ai danni della spia russa, nella seconda sezione invece, quei princìpi enunciati da Tom Hanks nella sua arringa difensiva trovano un esempio concreto nel corso della “missione” a Berlino. Proprio nei giorni in cui si costruisce il muro che dividerà la città e il mondo in due blocchi, Est e Ovest. La struttura stessa del film riflette questa divisione, questa ferita, cercando di sanarla con la traiettoria di un personaggio colto nell’attraversamento di un duplice confine, filmico e spaziale, portatore di quell’insieme di valori condivisi che salvano l’uomo dalla barbarie. Il film opera una vera e propria sutura delle immagini in un unico sguardo: le monete da un dollaro, utili nella trasmissione di informazioni segrete così come salvacondotto mortale; lo scavalcamento di campo da una parte all’altra di un muro o di una recinzione; le immagini dei test nucleari come traccia del passato e come minaccia per il futuro. Tutto si tiene insieme nello sguardo ora divertito ora attonito di Spielberg, che trova nell’asimmetria il fondamento dell’etica. Ovvero nell’idea secondo cui l’etica non può seguire logiche mercantili, non può essere barattata in nome della ragion di stato. Ci sono posizioni non negoziabili. Per cui ad un ostaggio sovietico corrispondono due ostaggi americani. E non perché lo straniero vale meno degli altri, ma al contrario perché non c’è etica che possa prescindere dalla difesa della dignità umana. Ecco allora che nel momento della trasgressione delle leggi (simboliche), l’uomo spielberghiano le riafferma, seguendo l’ideale che le ha ispirate nel corso del processo legislativo.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 16/12/2015

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