Hong Kong Express

di Wong Kar-wai

Il tempo dell’amore è il condizionale in Wong Kar-Wai. In due storie contigue e simultanee avviene ciò che sarebbe stato e si scrive ciò che sarà.

What a difference a day makes.

È il primo d’aprile. È finita. (Sarà vero?)

Ti amerò per sempre”, recita il codice d’accesso alla segreteria telefonica: è tutto ratificato e disperso, nella metropoli da oltre sei milioni di abitanti negli anni ‘90 detta Hong Kong, il rituale del tempo si aggrappa al prodotto in serie; in una scansione continua di orologi, stazioni e calendari, la fine dell’amore del poliziotto “223” sarà rimandata al primo maggio, perché “chissà da quando e perché tutto ha una data di scadenza”, perché è un mese dopo, perché è il suo compleanno, perché lei si chiamava May, perché forse tornerà, may be.

Cosa accade, esattamente, quando si oltrepassa una data di scadenza? Una chimica repentina cambia lo stato di un prodotto, di una situazione, di un sentimento, da un istante a quello dopo? Come chiameremo questo battito di ciglia? Con un numero, naturalmente. Impresso in caratteri esatti da qualche marcatore industriale.

Incastrati nel loop del non amore, i personaggi di Wong Kar-wai vivono davanti ai nostri occhi un presente sfuggente ma sensibile, che esiste nel paradosso di essere già stato, il passato è svelato tanto quanto il futuro, voci narranti intime e episodiche riflettono a cose fatte, ci svelano come sarebbe andata, “55 ore dopo mi sarei innamorato di questa donna”, come il minuto che in Days of Being Wild era servito a conoscersi per un minuto, che forse lui avrebbe ricordato, o dimenticato, chissà.

Fatalismo a posteriori, sentimenti condizionali, futuro nel passato: forse l’unico tempo dell’amore è quello che sarebbe stato, nel senso potenziale e nel senso del già avvenuto. Nei corridoi e nei crocevia karwaiani, si sa ormai, più che incontrarsi ci si sfiora, e quel momento di contatto è un giorno, un mese, un anno e altri dati necessari e irrilevanti rispetto al fatto in sé e al suo esistere che ha la forma del sogno, del cinema – cos’altro è eterno presente che avviene come se fosse reale, ma per il solo fatto che lo narriamo deve pur essersi concluso, eppure è sempre lì?

California dreaming a sfinimento.

Take my breath away in cantonese era il sottofondo dell’amore nel 1988 di As Tears Go By. In Hong Kong Express scorre come la Coca-Cola il brano che sogna il sole mentre la pioggia batte sui vetri, quel California Dreamin’ che insieme alla cover di Dreams dei Cranberries è leitmotiv onirico che guarda a ovest, che guida dritto verso un aeroplano perché tutto è andare e tornare, e attendere; e i sogni sono a portata di compagnia aerea nella seconda storia narrata dal film, che avviene in realtà in contemporanea alla prima, i protagonisti dell’una e dell’altra si incrociano senza accorgersene, a stento li notiamo noi, e solo l’istante è portatore di senso e segna il passaggio fra le due (donne, storie). Anche le riprese del film avvenivano nel frangente di un altro: nella pausa dalla faticosa lavorazione di Ashes of Time, Wong lasciava il wuxia per affidarsi alla naturalezza di un racconto di passaggio, recuperando un’energia istintiva inseguiva storie nel cuore del caos cittadino convergenti nel Midnight Express, fast-food realmente esistente (almeno fino a qualche tempo fa) e, ultimate le riprese in meno di tre mesi, si ritrovava con un cult che Tarantino volle distribuire, in cui definiva la propria veste autoriale.

Di amore in addio, dunque, le due storie si sfiorano e si danno il cambio – c’è stato un lunghissimo brivido, ma lei “sei ore dopo si sarebbe innamorata di un altro uomo”, poliziotto “663”. Sono mondi simultanei, come oriente e occidente in una città coloniale, in un cinema che assorbe i generi classici per il gusto di farli decadere, mette in scena una femme fatale dalla parrucca bionda, ma dissiperà il noir nella sua stessa giungla verticale – Chungking Express, titolo originale, è “la giungla di Chungking”, l’enorme complesso residenziale dove tutto si somiglia e tutto può cambiare in un singolo frangente inatteso – e nel blu degli spazi intimi, nei monocromatismi che racchiudono stati d’animo pervasivi e evasivi. Hollywood, presa a prestito, cede il passo all’autore che preferisce una pittura temporale a una narrazione codificata degli eventi, il melodramma potenziale vira verso l’ironia, il romanticismo si fa materialistico, la casa è un nido di solitudine disperso in mezzo a altre migliaia, “da quando sono solo gli oggetti sono diventati tristi. La sera non vado mai a dormire prima di averli consolati tutti”. Uno straccio bagnato piange, piogge monsoniche scorrono lasciando gli occhi intatti e una malinconia persistente che non impedisce di sorridere. Lei è carina in uniforme, lui anche, senza. I ruoli si scambiano, le identità si confondono, tutto continua ad avere una scadenza: anche i viaggi, prenotati un anno prima in lettere mai aperte e rese illeggibili dalla pioggia.

Dove avrebbe portato quel biglietto aereo? “Pensavo (...) che saremmo volati lontano, con un aereo con il serbatoio pieno. Chi immaginava che, a un certo punto, avrebbe cambiato destinazione?

Era il 1994. L’anno successivo, il tempo sarebbe continuato a scorrere nei timpani di Karmacoma come un rumore di giunti ferroviari al passaggio di un treno in Angeli perduti.

Due anni ancora, Hong Kong sarebbe tornata alla Cina. Nel 2017, a vent’anni dall’handover, in molti avrebbero protestato per la democrazia e contro Xi Jinping.

Nel 2046, che sarebbe stato un luogo, treni iperveloci avrebbero attraversato l’intero pianeta.

Per fortuna, non è ancora il 2046.

Per fortuna, a volte la destinazione non è leggibile. Così, è necessario scriverne una nuova.

Autore: Alessia Astorri
Pubblicato il 04/04/2018
Regia: Wong Kar-wai

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