Ghost Stories

Fin dall'assunto iniziale, Ghost Stories viene meno al patto di fede autore-spettatore, dileggiando il legame etico tra i due termini in nome del colpo di scena finale.

La premessa alla base di questo Ghost Stories consiste nel convincere uno spettatore scettico della reale esistenza di presenze ultraterrene, nell’ambito di una realtà quotidiana la cui illogicità supera ogni possibile immaginazione umana. Nell’universo diegetico del film, tocca a Philip Goodman interpretare il ruolo dello spettatore scettico: a differenza, però, del suo corrispettivo in sala, bloccato in una condizione di sottomotricità e di sovrapercezione, Goodman è un personaggio attivo e si occupa di smascherare senza problemi ogni falsità per conto di un programma televisivo dedicato al soprannaturale. L’investigatore ha un mito di gioventù, Charles Cameron, divulgatore impiegato nel suo stesso campo ma scomparso da tempo senza lasciare alcuna traccia. Le certezze di Goodman vengono infrante quando, a sorpresa, viene contattato da Cameron, che ha maturato una svolta nelle proprie certezze: alle prese con tre casi impossibili da risolvere, l’anziano divulgatore televisivo ha iniziato a credere alla veridicità di alcune ghost stories ed alla possibilità che il soprannaturale, in effetti, esista.

Blocco di appunti e registratore vocale alla mano, Philip Goodman precipita nell’oscuro baratro dei tre casi irrisolti: quello di Tony Matthews, custode di una struttura correttiva abbandonata e caratterizzata dalla presenza del fantasma di una bambina; il caso Simon Rifkind, ossessionato da visioni sataniche da quando si è inoltrato in piena notte in un bosco dopo aver rubato l’auto dei genitori; e, infine, la vicenda di Mike Priddle, finanziere rampante alle prese con un poltergeist che getta nel caos la stanzetta della figlia deceduta alla nascita.

Ghost Stories è tratto dall’omonima piece teatrale di genere horror di Jeremy Dyson ed Andy Nyman (co-registi del film) che ha tenuto banco a Londra per più di due anni. A tal proposito, non sorprende la svolta teatrale del terzo atto in cui ogni elemento della messa in scena viene letteralmente preso a picconate da una preoccupante consapevolezza che innerva il personaggio di Philip Goodman. Le conclusioni cui il film approda cozzano totalmente contro le già citate premesse di partenza, ribaltate nel corso delle tre storie a sé stanti fino al twist ending finale che contraddice ogni affermazione fatta fino a quel momento. È impensabile non volgere la mente ad uno dei capisaldi dei mind-game film analizzati da Thomas Elsaesser e Warren Buckland nel loro studio sulla tendenza alla creazione di puzzle-plot. A proposito de Il sesto senso, i due studiosi parlano di epistemological twist, ovvero di qualcosa che investe la credenza dello spettatore in termini radicali, e non come effetto di un semplice colpo di scena. Il sospetto dello spettatore, dopo la rivelazione finale relativa alla natura del personaggio interpretato da Bruce Willis, è che il regista abbia mentito e abbia nascosto la realtà dei fatti. In realtà, M. Night Shyamalan convince lo spettatore che Malcolm Crowe sia vivo senza mai mentire sulla sua condizione ma sfruttando, semplicemente, alcune caratteristiche insite nelle capacità cognitive umane che impediscono determinate inferenze da parte di quello che è stato definito first time viewer. In questo caso paradigmatico, il patto tra autore e spettatore non viene mai meno, al contrario che in Ghost Stories, ma sfrutta semplicemente i meccanismi percettivi della psiche umana, chiamando più volte in causa vetrate infrante che fanno da filtri della visione.

La costruzione a scatole cinesi del film di Dyson e Nyman, pretendendo di ricondurre gli elementi fantastici del tessuto del film ad una spiegazione razionale, mente fin dall’assunto iniziale e, manipolando uno spettatore inconsapevole, mette in dubbio la cauzione dell’analogo, ovvero la promessa fatta dall’autore di assenza di trucchi. L’autore non può barare né tanto meno nascondere le prove necessarie alla risoluzione dell’enigma. Nonostante un’impostazione che rifugge il brivido immediato e mira alla costruzione di una progressione basata su suggestioni e sensazioni, il film è privo di quell’etica necessaria ad ogni costruzione finzionale, che altrimenti risulta semplicemente circuire lo spettatore. Proprio come in questo caso.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 24/04/2018

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