From What Is Before

Il cinema come libera, ultima e umanissima idea di mondo. Il nuovo film di Lav Diaz è l'ennesimo capolavoro di uno dei più importanti cineasti contemporanei.

From What Is Before, ossia, Da ciò che era prima. Ma per arrivare dove? E a chi? Forse direttamente a noi spettatori…i film di Lav Diaz in fondo fanno parte di un unico grande flusso, di un unico tempo, che coincide sempre con la lenta riemersione della memoria di un Paese logorato da secoli e secoli di dominazioni e dittature. Quindi da sovrastrutture altre, da memorie altre, da una storia scritta da altri, a cui il cinema di Diaz vuole opporre una (im)possibile identità tutta “filippina” che venga dalla foresta e dalle persone, dal vento e dal pensiero, dalle catastrofi e dai sentimenti più puri. Ecco il perché di quella “politica” povertà dei mezzi (lui e la sua handycam), una scelta etica che ci riconsegna un’esperienza estetica emotivamente inscindibile da quella dei suoi personaggi. E noi ci perdiamo nella foresta e nella distruzione, nel (suo) cinema e nel (suo) passato, impiegando un tempo lunghissimo e giust(ificat)o per ri-conoscere le persone oltre i personaggi. Il cinema di Diaz, insomma, è un imponente dispositivo di memoria: una colata lavica di densissimo materiale ribollente che fa balenare Storia-e-Passioni incontrando il “nostro” personale fiume di vita e creando così nuove frontiere filmiche. Un cinema nuovo che non ha eguali nel panorama attuale.

From What Is Before, pertanto. Pardo d’Oro a Locarno e primo Festival vinto nella carriera di quest’autore immenso e pionieristico. Un film che nelle sue “prime ore” ci immerge nella vita di un villaggio sperduto nella foresta, nel 1972/73, durante cambiamenti epocali (l’ascesa militare di Marcos) che avvertiremo solo come echi. Voci tra gli alberi, vacche ammazzate, case bruciate, un corpo umano martoriato, ma che succede? Il cineasta concede il “nostro” tempo a quei personaggi, aprendo l’ennesima folgorante finestra sul mondo (sì, da questo punto di vista Diaz è forse il cineasta più baziniano di ogni tempo) e restituendo una miracolosa fenomenologia del gesto che crea voragini di significanza nel nostro sguardo ri-diventato vergine.

Questo piccolo villaggio, accerchiato dalla foresta e da due fazioni che lottano, non ha scampo. La “resistenza”, fisica e morale, diventa di nuovo l’unico atto nobile da contrapporre alle sovrastrutture della Storia. Itang porta ogni giorno sua sorella Joselina (affetta da gravi disturbi mentali) nel luogo impervio e sacro delle “Due Rocce”, munita di doni e cibo come pegno per la sua guarigione. Cibo che il depresso Tony e il piccolo Hakob consumeranno in vece di Dio, in un ciclico e struggente eterno ritorno dell’uguale. Itang, allora, è l’unico personaggio che sfida apertamente il confine (in ogni senso, i confini del cinema) producendo la rottura della stasi e l’infrangersi del mare in tempesta sulle rocce e sulla nostra inquadratura. È la tempesta che sta travolgendo Le Filippine e la sua gente.

E allora: se Itang tende al sacro bressoniano spingendoci ai limiti emotivi del nostro sguardo (con sequenze di una potenza lancinante, apici filmici dell’ultimo decennio), il suo amico Sito incarna invece il legame tutto “umano” con la natura, il lavoro e il dovere. Non se ne va l’uomo, anche dopo essere stato ingiustamente licenziato, anche dopo le migrazioni dei suoi cari, nemmeno dopo le minacce del nuovo esercito di Marcos. Sito e Itang sono le due polarità del cinema di Diaz: la terra e il cielo, la testarda restituzione del “dato reale” fusa a una tensione opposta che “innalza”, astrae e sublima l’esperienza nella bellezza. Un cinema epidermico e primordiale che assecondando con sublime pazienza i movimenti dell’uomo nella natura sa esplodere di passioni grezze e mai filtrate, facendo emergere un reale ferino contrastato solo dall’incedere lento e nobilissimo delle persone.

Il villaggio originario, pertanto, non c’è più. Marcos ha smembrato il patto sociale che legava gli abitanti con la natura, creando morte (la legge marziale) e perdita (le migrazioni), ma creando anche un sentimento comune che non morirà mai. Il poeta Horacio muore ma lascia in eredità la sua poesia e Sito (il personaggio più vicino a Lav) diventa così il custode di arti e memorie, gesti e culture, amori e dolori. I personaggi di Diaz continuano a essere mossi dal loro passato, in-consapevoli del loro presente, impossibilitati a un futuro che non sia l’annullamento nell’oltre dell’immagine (quindi del mondo…). E allora cosa ci rimane? Rimane la scelta. Rimangono le preziose tracce di un passaggio (la memoria di Melancholia), le poche universali parole (la poesia di Death in the Land of Enchantos), la potenza dei gesti (il rito di Itang e Joselina sulle Due Rocce sopravvive e viene reiterato come lunghissimo tributo nel prefinale). Rimane la meravigliosa possibilità di filmare per (r)esistere, insomma, in Lav Diaz rimane il cinema. Il cinema come libera, ultima e umanissima idea di mondo: “questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese”.

Autore: Pietro Masciullo
Pubblicato il 15/09/2014

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